Se 100 anni vi sembran pochi…

Se cento anni vi sembran pochi… Beh, io ve lo posso spiegare di persona. Perché sono nato esattamente un secolo fa, l’1 novembre 1922, a Battaglia Terme, primogenito di un fratello e tre sorelle; e oggi sono ancora qui a raccontarvelo, in forma diciamo discreta: quando vado dal medico (poco) mi suggerisce che dovrei andarci piano con i dolci… ma gli esami del sangue che faccio regolarmente lo smentiscono, e io cerco di ascoltarlo il meno possibile; in fondo, se sono arrivato fin qui un motivo ci sarà.

Giuseppe Bonafè
Giuseppe Bonafè nella biblioteca di Battaglia Terme, dove da diversi anni è volontario.

QUOTA 100 e oltre

Lo so, non è originale il titolo – quota 100 e oltre – ma fa intendere immediatamente che si tratta di una lunga storia; però a me i discorsi lunghi non piacciono e non mi vengono bene, perciò ve li risparmio.
Si fa presto a dire 100, ma provate a pensare a cent’anni, a quante cose capitano in un secolo; giorni allegri, tristi, noiosi, faticosi. E fatti grandiosi, eroici, tragici, indimenticabili.

Non ci è stato risparmiato nulla in questo lasso di tempo che va dal 1° novembre 1922 al 1° novembre 2022.
Proviamo a pensarci un attimo: dittature, guerre in Africa, la Seconda Guerra mondiale, la bomba atomica, la guerra fredda, guerre in Corea, in Vietnam, in Palestina, in Siria, in Iraq, in Afghanistan e in cento altri posti nel mondo.
Ma anche un progresso che sembra inarrestabile: automobili, elettrodomestici, treni velocissimi, aerei che solcano i cieli dei cinque continenti, la conquista dello spazio, il primo uomo in orbita, il primo uomo sulla Luna. I miti del cinema, la televisione in tutte le case, il telefono portatile, internet, il mondo in palmo di mano.
E le scoperte scientifiche, soprattutto in campo medico, come gli antibiotici, i vaccini, il primo trapianto di cuore.
E nel nostro piccolo paese? Il più piccolo della provincia di Padova per estensione? Ci sembra che qui non accada nulla e invece pensiamo a quanto è cambiato E non tutto, ovviamente, in meglio.

Nel nostro piccolo paese è nato Giuseppe Bonafè il 1° novembre 1922, cent’anni fa; ha studiato, è stato soldato durante la Seconda Guerra mondiale, ha lavorato nella grande Galileo, si è sposato con l’amata Bruna, è diventato padre e nonno, è stato amministratore comunale, insomma ha fatto un mare di cose, non e mai stato fermo.
Per la sua amata Battaglia si è speso molto, ha coltivato la ricerca storica e ha dato vita. con altre persone illuminate, al “Centro per la ricerca e la documentazione sulla storia locale”; il Centro ha sede in una sala al piano terra del Municipio e raccoglie documenti, reperti e testimonianze da cui si possono ricavare decine di mostre.
La presenza di Bepi in Biblioteca, credo almeno negli ultimi 40 anni, lo ha fatto conoscere a tanti, e tutti ne hanno apprezzato la precisione, la disponibilità, la costanza; i bibliotecari che si sono succeduti lo possono senz’altro testimoniare, come tutti i giovani studenti ai quali è particolarmente affezionato e i quali, come dice lui, sono la medicina che lo mantengono attivo e giovane.
Fino a poco tempo fa l’ho visto salire le scale a pioli per riporre ordinatamente i libri sugli scaffali più alti, un’agilità davvero rara.
Ho già parlato troppo, è sempre bene diffidare di chi inizia dicendo: “sarò breve…”.
Caro Bepi, a nome dell’Amministrazione Comunale, e credo d’interpretare il pensiero di tutti gli Amministratori che si sono succeduti a Battaglia Terme, facendoti i migliori auguri per i tuoi primi 100 anni ti ringrazio per il servizio che hai dedicato alla nostra bella Biblioteca, agli studenti ed alla nostra comunità.

Grazie di cuore e buon compleanno n. 100! Ed ora andiamo oltre.

Massimo Momolo
Sindaco di Battaglia Terme

SE 100 ANNI VI SEMBRAN POCHI…

La lunga e intensa vita di Giuseppe (Bepi) Bonafè

Raccolta da Francesco Jori

Se cento anni vi sembran pochi… Beh, io ve lo posso spiegare di persona. Perché sono nato esattamente un secolo fa, l’1 novembre 1922, a Battaglia Terme, primogenito di un fratello e tre sorelle; e oggi sono ancora qui a raccontarvelo, in forma diciamo discreta: quando vado dal medico (poco) mi suggerisce che dovrei andarci piano con i dolci… ma gli esami del sangue che faccio regolarmente lo smentiscono, e io cerco di ascoltarlo il meno possibile; in fondo, se sono arrivato fin qui un motivo ci sarà.
Una lunga vita intensa, davvero. Cominciata in un piccolo quartiere del paese, dove vivevano una quindicina di famiglie, a due passi dalla stazione ferroviaria, sulla linea Padova-Bologna: oggi l’edificio è chiuso ormai dal 2015 e ospita associazioni di volontariato; ma un tempo era frequentato e come, specie nella stagione d’oro del termalismo, grazie allo stabilimento dell’Inps che richiamava molti turisti. AI tempo della mia infanzia, tra bambini si stava molto assieme; noi della zona eravamo davvero fortunati rispetto ai nostri coetanei del resto del paese, perché con i treni che andavano e venivano in continuazione c’era un gran movimento di persone di tutti i tipi, che parlavano dialetti vari. Bisogna ricordare che in quegli anni tanti ragazzi della campagna vedevano un treno per la prima volta in vita loro solamente quando andavano militari…

Battaglia Terme all'inizio degli anni '30.

Battaglia Terme, 1930. In primo piano, la linea ferroviaria con la stazione. Il paese è ancora principalmente sviluppato lungo le rive del naviglio.

Per noi del posto era un autentico spasso poter giocare nelle carrozze ferroviarie ferme nei binari morti: ci salivamo, così sapevamo bene com’erano fatte. Mio papà Florindo poi ci lavorava, perché faceva il ferroviere manovratore: il traffico merci a Battaglia allora era molto intenso, specie per gli spostamenti dei materiali delle Officine Galileo e delle cave. Era un uomo molto prestante, dal fisico quasi atletico; nel tempo libero si appassionava alla cultura, ed era abbonato (cosa rara a quell’epoca…) a una rivista del Touring Club. Inoltre aveva acquistato un grande dizionario di italiano, e insisteva perché in famiglia imparassimo bene la lingua. Aveva anche una bella calligrafia, e spesso in stazione era lui a compilare le schede di spedizione.

L’infortunio di papà

Purtroppo, subì un infortunio sul lavoro che gli rese impossibile continuare a svolgere le sue mansioni, e questo causò alla nostra famiglia significative difficoltà economiche: bisogna pensare che a quell’epoca un ferroviere era pagato bene, guadagnava più di un operaio. Mamma Augusta reagì benissimo, anche se penso che abbia sofferto molto per la disgrazia di papà; ma con noi figli non si è mai lamentata, e ha sempre provveduto ai nostri bisogni. Era una persona che ispirava una grande calma, non credo di averla sentita quasi mai alzare la voce; però quando parlava si capiva che aveva un carattere forte, ed era sicura nelle sue decisioni. In casa faceva tutto lei: era una gran lavoratrice, sempre impegnata come del resto tutte le donne dei suoi tempi. Il poco spazio libero lo dedicava al ricamo, non solo per svago ma anche e soprattutto per portare a casa qualche soldino; in paese c’erano possibilità, perché c’erano molte attività che avevano bisogno di ricamatrici.
Causa l’infortunio di papà, né io né i miei fratelli abbiamo potuto studiare. La mia infanzia fini nel 1937, quando avevo appena 15 anni: fatte le elementari e l’avviamento professionale, fui assunto dalle Officine Galileo, che all’epoca erano già una grossa realtà industriale, visto che davano lavoro a 5-600 operai.

I “balilla” del fascismo

Eravamo in pieno ventennio fascista: io stesso sono nato solo una manciata giorni dopo la marcia su Roma; questo naturalmente ha segnato tutta la mia giovinezza. Come tanti altri, anche la mia famiglia ha dovuto adattarsi al regime, senza troppi entusiasmi. Noi ragazzi eravamo inquadrati per età: balilla, avanguardisti, giovani fascisti. Nei giorni delle feste nazionali dovevamo partecipare di persona, presentandoci in divisa e sfilando davanti al palco delle autorità. Ogni sabato pomeriggio poi, cascasse il mondo, avanguardisti e giovani fascisti dovevano sottoporsi all’addestramento militare: che significava marciare e imparare a usare l’arma in dotazione, il famoso moschetto di cui il regime andava così stupidamente fiero (forse avete sentito citare più volte lo sciocco slogan applicato alla scuola, “libro e moschetto, fascista perfetto”).
C’erano controlli molto rigidi. Ricordo una volta che, non so più per quale motivo, io e un gruppetto di amici avanguardisti di Battaglia avremmo dovuto presentarci a Carrara San Giorgio; nessuno di noi rispettò l’appuntamento, e ce ne andammo altrove per conto nostro. Bene: venimmo tutti “invitati” (per così dire…) a presentarci in federazione a Padova. Mentre aspettavamo di essere ricevuti, gli impiegati del partito ci guardavano beffardi, e uno di loro ci disse: “Ecco quelli di Battaglia che hanno saltato il raduno… stasera la passerete al fresco!”, e tutti gli altri si facevano gran risate. Confesso che noi un po’ di tremarella l’avevamo, e rimanemmo in quella condizione per un paio d’ore; poi finalmente venimmo fatti entrare nell’ufficio del segretario, il quale per nostra fortuna si limitò a una sfuriata, ricordandoci che “un ordine dev’essere eseguito!”; poi ci rispedì a casa nostra.
Per nostra fortuna, c’era spazio anche per il tempo libero. A quei tempi, la bicicletta era il solo mezzo di trasporto che la stragrande maggioranza si potesse permettere, l’auto era un lusso e una rarità: bisognava pedalare comunque, per andare a scuola o al lavoro, a trovare un parente o un amico o per fare una scampagnata. Il treno lo si usava solo per le lunghe distanze, e comunque fino alla stazione si arrivava in bici, magari arrivando da distante. Anche per questo, visto che noi dalla stazione ci abitavamo a due passi, mamma anche per racimolare qualche soldino aveva organizzato una piccola attività di custodia per studenti e lavoratori dei paesi vicini (già, perché pure a quei tempi le bici erano oggetto di furto, anzi ancora più ricercate di oggi…). Mia sorella Silvana ogni tanto si concedeva un “fuori programma”: ricordo una volta che andò a trovare dei conoscenti a Conselve portando con sé la mia fidanzata Bruna. Solo che di bici in casa ce n’era una sola, quindi le due donne si davano il turno a pedalare, mentre l’altra stava seduta sulla canna.

Quella gita in bicicletta

A me è rimasta impressa una gita fatta con tre amici, Duilio Rado, Florindo Frizzarin e Girolamo Papagni: la meta era lontana, Si trattava di raggiungere Bassano e da lì proseguire per Possagno per visitare il Tempio di Canova, e infine spostarsi a Pederobba per sostare all’Ossario dei caduti; naturalmente tornando a Battaglia in serata. Le bici di quei tempi non avevano mica i congegni di quelle di oggi: erano pesanti e si faceva fatica a pedalare, ma per noi era comunque una festa. Quindi abbiamo rispettato il programma, e a Pederobba ci siamo concessi un sontuoso pranzo al sacco a base di… panini e acqua! Poi siamo rientrati passando per Castelfranco e Padova. Le gambe erano rigide e la fatica era tanta; ma in qualche modo siamo tornati a casa, stanchi ma felici.
Intanto però l’Italia era entrata in guerra. Il 30 giugno 1942 feci la visita di leva; e il 6 settembre fui chiamato alle armi, a Macerata, nel IX Reggimento Autieri; con la tradotta arrivai nella zona dell’aeroporto, dove fui alloggiato assieme ai miei compagni in un hangar. Sistemazione precaria, devo dire: al mattino l’hangar veniva completamente aperto, lasciando che l’aria gelida penetrasse dovunque. Servizi igienici non ce n’erano proprio: per lavarsi dovevamo servirci di un tubo che portava l’acqua nel piazzale; fredda, chiaramente. Poi per fortuna ci spostarono a Trani, in un ambiente più confortevole. Dopo l’addestramento iniziale frequentai la scuola-guida militare, e alla fine feci anche l’istruttore di scuola-guida. Il 15 dicembre divenni soldato scelto, e il 23 gennaio 1943 fui nominato caporale. E poi… poi arrivò il fatidico 8 settembre: una situazione strana e al tempo stesso pericolosa, anche se in quei convulsi momenti nessuno si rendeva ben conto di cosa stesse accadendo.

Giuseppe Bonafè a Trani nel 1943.

Bepi militare a Trani, nel 1943.

8 settembre, l’arte di arrangiarsi

Assieme ad altri due caporali, uno di Piazzola e l’altro di Ancona, già da qualche notte avevamo deciso di passare le notti all’aperto ma al sicuro anziché dormire in caserma, perché quest’ultima era diventata un bersaglio per i bombardamenti alleati. La mattina del 9, quando rientrammo, trovammo letteralmente il deserto: non c’era neanche una persona, ed erano spariti perfino i materiali perché i civili nel frattempo avevano portato via tutto. Decidemmo allora di lasciare Trani e raggiungemmo Corato, in provincia di Bari, nella speranza dell’imminente arrivo delle truppe americane. Ci ospitarono in alcune masserie disabitate, e lì rimanemmo per quattro-cinque giorni; poi, vedendo che di alleati non c’era l’ombra e per paura di essere catturati dai tedeschi, decidemmo di cercare di tornare a casa… a piedi, naturalmente! Passammo per Foggia e San Severo, mangiando soltanto quel po’ di frutta che trovavamo nei campi. Un giorno, affamati, cercammo di barattare due coperte con un po’ di cibo; un contadino le prese, poi in cambio ci diede un pezzo di pane spiegando che altro non aveva. In pratica, ci tirò un bidone…
Ci rimettemmo in cammino, e un giorno vedemmo arrivare una camionetta di tedeschi; facemmo appena a tempo a spostarci dalla strada, pieni di paura, ma uno di loro evidentemente si impietosì e ci lanciò due scatolette di carne. Noi restammo basiti: proprio da loro, un aiuto non ce lo aspettavamo di sicuro… Comunque fu una piccola festa, spartendoci fraternamente quel po’ di cibo. In qualche modo arrivammo a Pescara, dove però i tedeschi ci catturarono, e ci portarono subito a lavorare nella stazione ferroviaria. Approfittando di un’incursione aerea, riuscimmo a fuggire e riprendemmo la via verso casa, decidendo però per prudenza di non percorrere le strade, ma di camminare lungo la massicciata ferroviaria, anche nella speranza di poter salire su un qualche convoglio. Ad Ancona il nostro amico, arrivato alla meta, ci lasciò, e noi proseguimmo, riuscendo a un certo punto a salire su un treno che ci portò a Ravenna.
Lungo il cammino leggemmo il bando con cui il generale Graziani, all’epoca ministro della Guerra nella repubblica di Salò, ordinava a tutti i soldati di presentarsi in servizio. A Ferrara ci imbattemmo nei tedeschi che perquisivano tutti quelli che scendevano dai treni; credevamo di essere spacciati, quando due ragazze molto sveglie, capendo la situazione, ci presero sottobraccio e cominciarono a parlare con noi come se fossimo i loro fratelli. Fu così che finalmente riuscii ad arrivare a Battaglia, dove mia madre mi accolse con grande gioia e sollievo, visto che ufficialmente ero stato dato per disperso. Per qualche tempo rimasi comunque nascosto. Poi venni assunto dalla Galileo, che all’epoca era uno stabilimento ausiliario, e che come tale era oggetto di bombardamenti: dopo uno particolarmente intenso dell’ottobre 1944 un reparto dovette traslocare in una fattoria vicino al cimitero di Monselice. Qui si montavano le centrali di tiro per l’artiglieria e per la Marina; noi che ci lavoravamo eravamo perciò militarizzati, proprio come i barcaioli dei burci che trasportavano materiale per le forze armate. La nostra era una vita piena di tensione: i bombardamenti erano frequenti, intensi e violenti, e anche a Battaglia ci furono delle vittime pure tra i civili. Infine, la guerra terminò, e io fui ufficialmente congedato il 5 agosto 1949.

Il mio lungo legame con Bruna

Quell’anno fu anche quello del mio matrimonio. Nella mia vita era entrata già da tempo Bruna, figlia di una famiglia di Battaglia a suo tempo emigrata in Francia per motivi economici, come tante altre, poi rientrata in paese, e per questo conosciuta sul posto come “i francesi”. Famiglia numerosa, con sette figli; tra cui appunto Bruna, bella, seria, con un carattere tranquillo; anche un po’ malinconica perché in Francia si era ambientata, stava frequentando la scuola, si era creata una rete di amicizie: adesso in pratica doveva ricominciare tutto da zero. Erano nostri vicini di casa; cominciammo a parlarci e a conoscerci, tra noi sbocciò l’amore. Ma erano tempi duri, di ricostruzione in tutti i sensi, era difficile trovare un alloggio e per vivere bisognava fare sacrifici; e riuscimmo a sposarci soltanto nove anni dopo, appunto nel ‘49. Dal matrimonio nacquero due figli, Diego e Andrea; arrivò anche Lucio, ma purtroppo non sopravvisse al parto, con grandissimo dolore di Bruna.
Lei con i ragazzi era davvero eccezionale: malgrado le difficoltà economiche, voleva che avessero tutto quello che a lei era mancato: vestiti, giocattoli, libri; soprattutto, poter studiare. Inoltre, si dedicava con grande passione alla casa, dall’arredamento alle modifiche da apportare all’alloggio alla cura quotidiana; poi, quando i figli sono diventati grandi, ha fatto lo stesso con la nipotina Francesca, figlia di Andrea. In pratica, erano tutti compiti che ricadevano pressoché interamente su di lei, perché io ero molto impegnato non soltanto con il lavoro (si stava in fabbrica 48 ore la settimana, sabato mattina compreso), ma anche sul piano sociale: partecipavo all’amministrazione comunale, e mi dedicavo a svariate attività del dopolavoro, dal Cral all’Anla alla Fail. Ma anche Bruna era attiva pure fuori casa: faceva parte di alcune associazioni francescane, era una donna molto devota, partecipava alla recita serale del rosario in chiesa; ricordo che un anno siamo stati insieme a Lourdes. Infine, negli anni Settanta e Ottanta, Bruna si è impegnata in parrocchia: con alcune amiche prestava opera di volontariato al bar del patronato.

La moglie Bruna, con cui Bepi ha trascorso molti anni, con i figli Diego (a destra) e Andrea.

Bruna, moglie di Bepi, con i figli Diego (a destra) e Andrea.

Una vita in Galileo

E veniamo alla mia lunga e intensa esperienza in Galileo, dove sono entrato nel 1937 come apprendista: quell’anno, le Officine assunsero molti ragazzi della mia classe, il 1922. Alcuni di loro vennero destinati al reparto macchine o alla carpenteria, io fui assegnato all’aggiustaggio: dove ebbi la fortuna di venire affidato alle cure di un caposquadra con grande esperienza, Mario Pedrazzoli. Il lavoro mi piaceva, ed era molto impegnativo dal punto di vista tecnico, perché realizzavamo macchinari per la costruzione di lenti prodotte poi a Mestre, ma anche equipaggiamenti specifici per le unità della Marina militare. Nel 1940 in particolare abbiamo costruito proprio a Battaglia le torri di tiro I e II della corazzata “Roma”, che era in fase di realizzazione nei cantieri navali di Trieste. Pedrazzoli era il responsabile dell’operazione per la parte Galileo, e una volta che le torri vennero montate sulla nave andai con Pedrazzoli a Trieste per un paio di mesi; poi la corazzata passò nel bacino dell’Arsenale di Venezia, e lì entrambi rimanemmo per altri due mesi. Le mie trasferte di lavoro erano appena iniziate: nel 1942 fui mandato a Fiume, per il montaggio delle gru del porto; ma mentre ero lì venni raggiunto dal richiamo alle armi, così dovetti rientrare a casa e poi partire per la guerra.

Una delle ultime foto della corazzata ROMA, affondata il 9 settembre 1943.

Una delle ultime foto della corazzata ROMA. L’unità verrà affondata il 9 settembre 1943.

Riuscito avventurosamente a tornare dopo l’8 settembre 1943, come ho prima raccontato, nel gennaio del 1944 fui nuovamente assunto dalla Galileo, e grazie a questo venni esonerato dal richiamo alle armi, anche perché come ho ricordato la fabbrica era di fatto militarizzata. In quel periodo lavorammo però anche su altri fronti, uno dei quali particolarmente innovativo: in gran segreto, eravamo impegnati nella costruzione di un’automobile con motore stellare; ed io ero coinvolto per il montaggio del cambio e alcune parti della strumentazione. Poi però, nella ricostruzione post-bellica che poneva altre esigenze più urgenti, il progetto fu accantonato. Terminata la guerra, le Officine di Battaglia si specializzarono nel campo elettromeccanico, producendo per la SADE (la Società Adriatica di Elettricità, fondata nel 1905 a Venezia da Giuseppe Volpi, e nazionalizzata nel 1963 passando all’ENEL) apparecchiature di vario tipo, come interruttori ad alta tensione, trasformatori, sezionatori.
Era un periodo molto intenso e con molte commesse, e cominciò a presentarsi la necessità di lavorare anche fuori sede. La cosa mi interessava, e diedi la mia piena disponibilità a spostarmi; così il vice direttore ingegner Mariotti mi trasferì nei reparti in cui si producevano i vari tipi di apparecchi. Ma non mi occupavo soltanto di lavoro: in quella fase del primo dopoguerra, c’era l’esigenza di riorganizzare le fabbriche non soltanto sotto l’aspetto della produzione, ma anche sotto il profilo sindacale e partecipativo. In risposta a questo, nacquero o vennero diverse associazioni di lavoratori che operavano sul terreno della ricreazione, della cultura, dell’assistenza. D’altra parte, grande azienda com’era allora la Galileo non era solo un luogo di lavoro e produzione: la presenza di un forte sindacato e di tante associazioni aziendali creava un legame tra il personale che andava oltre il semplice lavorare insieme; inoltre, gran parte dei dipendenti viveva a Battaglia o nei Comuni vicini. per cui era normale frequentarsi sia dentro che fuori la fabbrica. Perciò al di fuori dell’orario di lavoro mi sono impegnato in prima persona e con continuità in varie di queste associazioni.

Il reparto montaggi della Galileo, di cui Bepi è stato per diversi anni responsabile.

Il reparto montaggi della Galileo, di cui Bepi è stato a lungo responsabile.

L’impegno extra lavoro

Ricordo le principali. L’ANLA, associazione nazionale lavoratori anziani, era quella cui aderivano operai, impiegati e dirigenti: organizzava attività culturali, gite turistiche, visite a siti produttivi, e iniziative più legate alla vita di comunità della fabbrica, tipo pranzi sociali e premiazioni. Qui, dopo vent’anni di lavoro, sono entrato a far parte dei lavoratori anziani della Galileo, e per 15 anni sono stato consigliere dell’associazione. Il CRAL, circolo ricreativo aziendale, era un gruppo del dopolavoro aziendale alla cui nascita ho partecipato in prima persona occupandomi della parte amministrativa in qualità di segretario, in quanto bisognava tra le altre cose tenere la contabilità per il locale aperto in sede come servizio bar; poi, dopo una visita in Svezia dell’ingegner Frate, fu creata anche una piccola biblioteca con tanto di sala di lettura. Per dieci anni ne sono stato segretario e tesoriere. Infine, il FAIL, fondo di assistenza integrativa, era stato istituito per aiutare i dipendenti in difficoltà a causa di malattie, ma prevedeva anche altre misure in favore dei lavoratori e dei loro familiari. Di questo Fondo sono stato anche presidente per cinque anni, e ho collaborato con il consiglio direttivo per la stesura del regolamento. È bene spiegare, a questo riguardo, che l’Inps a quell’epoca rimborsava al lavoratore ammalato soltanto l’80 per cento dello stipendio: noi come fondo provvedevamo a coprire il rimanente 20. Inoltre, per gli impiegati che dovessero essere ricoverati in ospedale garantivamo la disponibilità di una camera singola, ed erogavamo contributi per le spese odontoiatriche e l’acquisto di occhiali. Infine, a spese dell’azienda venivano organizzati ogni anno soggiorni estivi al mare o in montagna per 50 tra operai e impiegati; e i figli dei dipendenti, previa visita medica, potevano usufruire di un soggiorno in colonia.

1969, i figli dei dipendenti della Galileo di Battaglia Terme stanno partendo per la colonia estiva.

Estate 1969, i figli dei dipendenti delle Officine Elettromeccaniche Galileo di Battaglia Terme stanno partendo per la colonia estiva.

Sul piano dell’impegno lavorativo, per me arrivò il momento della prima trasferta all’estero, in quella che allora era la Jugoslavia. È bene spiegare che già nel 1947 avevamo cominciato a produrre apparecchiature elettriche, prima su licenza Scarpa, poi direttamente su progetti Galileo; e ben presto la realizzazione di apparecchiature a media e alta tensione, essenziale per la costruzione di nuove centrali elettriche di cui in quella fase il Paese aveva particolarmente bisogno, divenne l’attività prevalente per le Officine di Battaglia. Dove peraltro nei primi anni Cinquanta la produzione era molto varia, spaziando dai rimorchi alle macchine per la lavorazione del legno alle presse per la spremitura dei semi di girasole. In quella fase, io ero assegnato al montaggio di interruttori a media tensione COR 15. E in quella veste, nel 1954 ricevetti il mio primo incarico all’estero, a Zenica, città industriale della regione della Bosnia, all’epoca sotto la Jugoslavia. Lì si era presentato un problema di particolare rilievo: gli interruttori COR che avevamo fornito alla locale centrale (che forniva di energia elettrica la città di Sarajevo) risultavano difettosi, per un qualche motivo che non si riusciva a individuare.

La mia trasferta in Jugoslavia

All’epoca, era una trasferta tutt’altro che semplice, non c’erano certo tutte le strutture del turismo di oggi; inoltre, in Jugoslavia noi italiani venivamo ancora visti con sospetto. Fu un lungo viaggio, dapprima da Battaglia a Belgrado, fatto nottetempo; proseguito in vagone letto fino a Zenica. Alla mattina seguente mi presentai in centrale, e subito venni accompagnato nel reparto dove erano stati installati gli interruttori. Mi resi subito conto che ci si trovava in presenza di una specie di disastro: davanti a me c’erano tre interruttori smontati, con i pezzi sparsi a terra nel caos più totale; era chiaro che gli addetti della centrale non sapevano che pesci pigliare. Chiesi allora di poter parlare con il direttore, per verificare lo stato di funzionalità degli interruttori; e mi accorsi che la fase di apertura era troppo lenta. In particolare, la base dei singoli interruttori era montata male, e non risultava in piano per un buon cinque-dieci per cento: da qui la lentezza nell’apertura, e il mancato spegnimento dell’arco che si creava nel momento dello stacco. Sistemai uno degli interruttori a regola d’arte, per eseguire il giorno successivo una serie di prove.
Ma qui sorsero dei grossi problemi. Un operaio avvisò il capo-centrale, e assieme ad altri operatori provarono per tutta la notte la funzionalità dell’interruttore, senza farmi partecipare all’operazione. Di fronte alle mie rimostranze mi trovai a dovermi misurare con un’evidente ostilità del personale; peraltro verificai che l’interruttore funzionava normalmente. Comunicai subito il tutto alla direzione della Galileo, e l’ingegner Mariotti mi chiese di fornirgli alcune precisazioni sulla grandezza della scarica dell’arco, che risultava normale. Dopo alcuni giorni venne organizzata una riunione con alcuni ingegneri di Sarajevo, con la presenza di un interprete. Il quale alla fine mi spiegò che stavano facendo una solenne lavata di capo al direttore della centrale, accusandolo di fatto di non capire niente… Comunque, una volta sistemati a regola tutti i piani d’appoggio, gli interruttori risultavano perfettamente funzionanti; alla fine mi chiesero quante aperture si potevano eseguire con una coppia di contatti ed io risposi senza esitazione che in una situazione di esercizio normale potevano funzionare tranquillamente per dieci anni. Tra una cosa e l’altra, il mio soggiorno a Zenica si protrasse per un mese.
Un po’ alla volta il mio impegno fu premiato, e nel 1956 venni promosso capo squadra, nel reparto montaggi degli interruttori a media tensione OPR-IOCI-IOCC; alle mie dipendenze avevo una ventina di operai. Responsabile del reparto interruttori a media tensione, comandi, sezionatori, era il signor Montelatici, coadiuvato da un perito meccanico. Quest’ultimo apparteneva a una categoria di persone che venivano da fuori paese, ed erano praticamente alla loro prima assunzione; arrivavano, maturavano un po’ di esperienza, poi il più delle volte trovavano un impiego più conveniente, oltretutto più vicino a casa, e se ne andavano. Accadde così anche per Montelatici il quale, rimasto senza supporto, decise di nominarmi vice capo reparto: al mio posto vennero designati due capi squadra, uno per il montaggio degli interruttori a media tensione, e uno per i comandi. Più avanti morì il signor Ferro, che era responsabile del Reparto lavorazione macchine, e il suo posto fu affidato a Montelatici, mentre io diventai capo reparto di due squadre, interruttori a media tensione e comandi. Poco dopo me ne vennero affidati altri due, sezionatori e filerìa.