Veneto e Inferno di Dante (2 – dal XVII Canto)

I luoghi e i protagonisti relativi al Veneto presenti nell’Inferno di Dante. In questa seconda parte, che inizia con il XVII Canto, vengono ricordati i burchi, tipici barconi veneti a lungo utilizzati per il trasporto fluviale, anche a Battaglia. Qui si trova il Museo della Navigazione fluviale, che conserva la memoria di questa imbarcazione.

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INFERNO

Giotto, Giudizio universale, particolare dell'Inferno. Padova, Cappella degli Scrovegni.

Giotto, Giudizio universale, particolare dell’Inferno. Affresco. Padova, Cappella degli Scrovegni.

Di © José Luiz Bernardes Ribeiro / , CC BY-SA 4.0, Collegamento con modifiche.

8 CANTO XVII, 19-24
9 CANTO XVII, 64-75
10 CANTO XX, 61-69
11 CANTO XXI, 7-18
12 CANTO XXVIII, 70-75

8

CANTO XVII, 19-24

Come talvolta stanno a riva i burchi,
che parte sono in acqua e parte in terra,
e come là tra li Tedeschi lurchi

lo bivero s’assetta a far sua guerra,
così la fiera pessima si stava
su l’orlo ch’è di pietra e ‘l sabbion serra.

[Come talvolta i burchi, a riva, stanno per metà in acqua e il resto in secca sulla sponda, e come tra i ghiotti Tedeschi il castoro si dispone a lottare con i pesci, così quel mostro maledetto se ne stava sull’orlo di pietra del burrone che circonda la sabbia infuocata.]

Lasciati i violenti al loro eterno destino, i due poeti si apprestano a discendere nel girone delle Malebolge, ove sono puniti i fraudolenti. Per superare il profondo e ripido burrone che li separa dall’ottavo girone, Virgilio fa salire dal tenebroso abisso un mostro alato: Gerione. Costui, giunto sulla sommità del burrone, si appoggia con la parte anteriore del corpo all’orlo roccioso e lascia libera la coda avvelenata e forcuta di guizzare nel vuoto.

Gustave Doré, Gerione. Inferno, Canto XVII.

Gustave Doré, Gerione. Inferno, Canto XVII.

Pubblico dominio, attraverso Wikimedia Commons

Le dimensioni e l’insolita posizione del drago ricordano al poeta i burchi, i tipici barconi veneti quando vengono per metà tratti in secco lungo i corsi d’acqua. Non occorre ricordare che all’inizio del secolo XIV i canali e i fiumi navigabili sono le uniche vie commerciali della terraferma – fungono da autostrada e da ferrovia insieme – e perciò la presenza di numerose imbarcazioni adatte al trasporto di merci lungo i corsi d’acqua è un fenomeno piuttosto frequente.
Il burchio, diffuso barcone da carico adatto alla navigazione interna dei corsi d’acqua veneti, è caratterizzato da un fondo piatto che si innalza fino alla sommità della prua con una curvatura caratteristica, è dotato di due alberi abbattibili per sottopassare i ponti e di due vele al terzo. La portata varia da 800 a 2.500 quintali e le dimensioni di massima sono:

lunghezza m 35 ca.
larghezza m 7 ca.
altezza m 2 ca.
pescaggio a pieno carico m 2 ca.

A Battaglia Terme (Padova), dove fiorì per molti secoli il commercio per via d’acqua, esiste un Museo della navigazione fluviale che, attraverso la testimonianza di interessanti reperti, conserva la memoria di questa importante e secolare imbarcazione.

Vecchio burchio in secco a Battaglia Terme. Sullo sfondo, il castello del Catajo.

Parte poppiera di un vecchio burchio in secco a Battaglia Terme. Sullo sfondo il Catajo.

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9

CANTO XVII, 64-75

E un che d’una scrofa azzurra e grossa
segnato avea lo suo sacchetto bianco,
mi disse: – Che fai tu in questa fossa?

Or te ne va; e perché se’ vivo anco,
sappi che ‘l mio vicin Vitalïano
sederà qui dal mio sinistro fianco.

Con questi Fiorentin son padoano:
spesse fïate mi ‘ntronan li orecchi
gridando: “Vegna ‘l cavalier sovrano,

che recherà la tasca con tre becchi!” -.
Qui distorse la bocca e di fuor trasse
la lingua, come bue che ‘l naso lecchi.

[E un altro, la cui borsa bianca era contrassegnata da una grossa scrofa azzurra, mi disse:
– Che fai qui all’Inferno? Vattene, ma poiché sei ancora vivo, sappi che il mio concittadino, il podestà Vitaliano del Dente, verrà a sedersi qui, alla mia sinistra. Sono l’unico padovano tra questi fiorentini che spesso mi stordiscono gli orecchi, gridando: “Venga presto il sommo dei cavalieri, che recherà uno stemma con tre capri!” – Quindi storse la bocca e tirò fuori la lingua come un bue che si lecca il naso.]

Mentre Virgilio tenta di persuadere Gerione a trasportare i due visitatori sul fondo del burrone, Dante si avvicina ad un gruppo di usurai che, seduti sull’orlo infuocato del medesimo burrone, agitano convulsamente le mani per difendersi inutilmente dalla pioggia di fuoco e dal calore della sabbia. Sul loro petto pende una borsa che reca lo stemma della famiglia di appartenenza: in uno di questi stemmi è raffigurata una scofa pregna e rampante di colore azzurro su campo d’oro.
E’ lo stemma degli Scovegni, una delle famiglie più importanti della città di Padova le cui origini si fanno risalire ad un certo Rinaldo Pota di Scrova, usuraio, e fiorita nel secolo XIV. Gli Scrovegni sono ora amici, ora aspri avversari dei Carraresi e, nonostante la loro potenza, vengono cacciati più volte in esilio, ma rientrano sempre in città. A Padova figurano presenti fino al 1444, dopo di che si trasferiscono in Francia.
Il dannato è sicuramente Reginaldo Scrovegni, notissimo usuraio ricordato come tale anche da Petrarca. Reginaldo è il padre di Enrico, colui che nel 1300 acquista, in prossimità di un antico teatro romano, un terreno per costruirvi il proprio palazzo con annessa la Cappella. E’ molto probabile che la costruzione della celeberrima Cappella sia stato il modo scelto da Enrico, elevatosi socialmente fino al rango della cavalleria, per espiare il peccato del padre.

Giotto [Public domain], attraverso Wikimedia Commons
Giotto [Public domain], attraverso Wikimedia Commons

La Cappella viene affrescata, proprio negli anni in cui Dante soggiorna a Padova, da Giotto, il quale raffigura nel Giudizio Universale Enrico mentre sta offrendo un modellino dell’edificio alla Vergine. Dante incontra con molta probabilità Giotto e ammira i suoi affreschi, uno dei massimi capolavori dell’arte occidentale. A quegli affreschi certamente pensa quando, nel canto XI del Purgatorio, antepone Giotto a Cimabue e, di fatto, lo elogia come il più grande di tutti.
A proposito del presunto incontro tra Dante e Giotto, Benvenuto da Imola ci narra un gustoso aneddoto. Dopo aver incontrato il poeta nella Cappella, Giotto lo invita a cena. Dante videns plures infantulos eius summe deformes, et patri simillimos … , gli chiede come mai facesse angeli tanto belli e figli tanto brutti. Giotto avrebbe risposto: Quia pingo de die sed fingo de nocte. Ma c’è un altro particolare che merita attenzione. Alessandro Parronchi vede il più vero ritratto di Dante in uno dei volti effigiati nello stesso affresco del Giudizio Universale, vicino addirittura a quello di Giotto e ad un altro grande artista presente nella Cappella, Giovanni Pisano. L’ipotesi, suffragata da un abbigliamento che sembra quanto mai appropriato, non è però confortata da alcuna tradizione relativa ad una effigie di Dante nella Cappella degli Scrovegni.
Reginaldo, vistosi scoperto da chi può sconfessarlo perchè ancora vivo, si vendica rabbiosamente denunciando il prossimo arrivo di altri usurai tra cui il padovano Vitaliano del Dente. Costui è podestà di Vicenza nel 1304 e di Padova nel 1307 ma, essendo ricordato dagli antichi commentatori anche come uomo generoso e liberale, l’identificazione non è certissima; molti lo identificano con un certo Vitaliano figlio di Jacopo Vitaliani di cui poco o nulla si sa.
Al termine delle sue parole lo Scrovegni compie un gesto animalesco che ricorda un bue che ‘l naso lecchi. Il paragone, che sembra concludere degnamente il bestiario araldico degli usurai, non può non richiamare alla memoria che una figlia di Reginaldo è maritata Capodivacca e che la nipote Agnola si è sposata con Nicolò Linguadivacca.

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CANTO XX, 61-69

Suso in Italia bella giace un laco,
a piè de l’Alpe che serra Lamagna
sovra Tiralli, c’ha nome Benaco.

Per mille fonti, credo, e più si bagna
tra Garda e Val Camonica e Pennino
de l’acqua che nel detto laco stagna.

Loco è nel mezzo là dove ‘l trentino
pastore e quel di Brescia e ‘l veronese
segnar poria, s’e’ fesse quel cammino.

[Su, nella bella Italia, ai piedi di quelle Alpi che rappresentano il confine meridionale della Germania e che si trovano all’altezza del Tirolo, si trova il lago di Garda. Da mille e più sorgenti, credo, sono bagnate le Alpi Pennine tra il Garda e la Valcamonica con quell’acqua che si riversa e si ferma nel lago. C’è un luogo là in mezzo, dove i vescovi di Trento, Brescia e Verona, una volta giuntivi, potrebbero ognuno benedire, perché lì confinano i tre vescovati.]

Dante si trova sulla sommità di un ponticello naturale che sovrasta la quarta bolgia ed osserva, tra le lacrime, gli indovini che camminano con il capo stravolto dalla parte della schiena. Tra questi Virgilio gli indica Manto, l’indovina che il mito diceva fondatrice di Mantova, la città presso cui Virgilio è nato.

Giovanni Stradano, Gli indovini. Inferno, Canto XX.

Giovanni Stradano, Gli indovini. Inferno, Canto XX.

Pubblico dominio, attraverso wikimedia

L’amore per la città natale spinge il poeta a soffermarsi sulle origini della sua città e descrive sinteticamente i luoghi in cui Manto vaga prima di fermarsi e morire presso un isolotto in mezzo a una palude. Indicata, se pur in modo non molto preciso in verità, la posizione geografica del Lago di Garda, ai piedi delle Alpi e all’altezza del Tirolo – va ricordato che proprio in quegli anni il Tirolo era diventato una vera e propria unità politica di origine feudale per opera soprattutto di Mainardo II, conte di Tirolo – il poeta allarga lo sguardo fino ad abbracciare tutto il bacino imbrifero del lago, racchiuso tra la Val Camonica ad ovest, la città di Garda ad est e le Alpi Pennine a nord.
Proseguendo nella narrazione, Virgilio precisa che in mezzo al lago esiste un loco in cui confinano i vescovati di Trento, Brescia e Verona. La terzina, non chiarissima, può essere interpretata almeno in tre modi: il luogo è l’isola dei Frati, oggi chiamata Lechi, in cui una piccola chiesa era per davvero soggetta alla giurisdizione dei tre vescovi; è il territorio di Campione anch’esso un tempo confine delle tre diocesi; è un luogo ideale in mezzo all’acqua.
Poiché le prime due ipotesi fanno riferimento a luoghi tutt’altro che centrali rispetto al lago, la terza ipotesi sembra la più plausibile, anche alla luce dell’espressione s’e’ fesse quel cammino, che non avrebbe alcun senso se ognuno dei tre vescovi avesse potuto recarvisi normalmente.
Ettore Caccia dedica ben sedici pagine a questo misterioso luogo sviscerandone puntigliosamente tutti gli aspetti geografici e storici, ma, sempre a proposito del punto d’incontro dei tre vescovati, Gina Fasoli intelligentemente scrive: punto che i pescatori – ignari delle discussioni dei dotti, ma fedeli alle antiche tradizioni – sanno ancor oggi indicare in un punto preciso in mezzo al lago, al largo di Sirmione.

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11

CANTO XXI, 7-18

Quale ne l’arzanà de’ Viniziani
bolle l’inverno la tenace pece
a rimpalmare i legni lor non sani,

ché navicar non ponno – in quella vece
chi fa suo legno novo e chi ristoppa
le coste a quel che più vïaggi fece;

chi ribatte da proda e chi da poppa;
altri fa remi e altri volge sarte;
chi terzeruolo e artimon rintoppa – :

tal, non per foco, ma per divin’arte,
bollia là giuso una pegola spessa,
che ‘nviscava la ripa d’ogne parte.

[Come nell’arsenale dei Veneziani, durante l’inverno, bolle la pece vischiosa che serve a calafatare gli scafi danneggiati delle loro navi che non possono salpare e, invece di navigare, chi imposta una nuova imbarcazione, chi infila la stoppa tra il fasciame della nave che fece già molti viaggi, chi aggiusta da prua e chi da poppa, qualche altro costruisce remi e un altro ancora avvolge cordami, chi invece rappezza vele piccole e grandi; così, non per fuoco, ma per volere divino, bolliva laggiù una pece densa che copriva di uno strato vischioso i barattieri e le sponde della bolgia.]

Di Danny S. [CC BY-SA 3.0 ], da Wikimedia Commons con modifiche.
Di M0tty [CC BY-SA 3.0 ], da Wikimedia Commons con modifiche.

Giunti sulla sommità del ponte che sovrasta la quinta bolgia, i due poeti osservano la pena cui sono condannati i peccatori: i barattieri sono immersi in un fiume ribollente di pece vischiosa e vengono straziati e uncinati dai diavoli che li infilzano dalle sponde se tentano di emergere.

Giovanni Stradano, I barattieri. Inferno, Canto XXI.

Giovanni Stradano, I barattieri. Inferno, Canto XXI.

Pubblico dominio, attraverso wikimedia

La drammatica scena brulicante di movimento, la visione di quella pece nera e l’odore che ne emana suscitano in Dante il ricordo di Un analogo scenario, assai meno drammatico, ma ugualmente vivace e dinamico: il lavoro che quotidianamente ferve nell’Arsenale di Venezia, la più grande fabbrica del suo tempo.
L’insolita precisione della descrizione, sottolineata da una ricchezza lessicale che giunge fino all’utilizzo di un linguaggio tecnico-marinaresco, induce a pensare che Dante abbia davvero visitato l’Arsenale. Non ha dubbi G. Petrocchi che scrive: la tradizione vuole … che Dante soggiornasse o almeno visitasse Venezia, il ricordo del cui arsenale è troppo minuzioso nei particolari, in un palese compiacimento di “cosa vista”, per collocarsi tra quelle di determinazioni o comparazioni geografiche guidate dal dono della fantasia … Ma quando? Escludendo per ovvi motivi il viaggio a Venezia del 1321, Petrocchi colloca la visita all’ Arsenale negli anni 1304-05, quando il poeta si trovava a Padova. L’altra occasione in cui Dante avrebbe potuto ammirare l’Arsenale si sarebbe presentata attorno al 1310, ma essa sembra piuttosto tarda rispetto alla stesura dell’Inferno, e occorrerebbe ipotizzare, in questo caso, un ritocco posteriore.

Venezia, Campo de l'Arsenal.

Venezia, Campo de l’Arsenal. L’ingresso odierno da terra dell’Arsenale.

Di Didier Descouens [CC BY-SA 4.0 ], da Wikimedia Commons con modifiche.

Si noti, comunque, che Dante non tralascia alcuna delle operazioni fondamentali che si eseguivano in un arsenale: la liquefazione della pece indispensabile per il calafataggio degli scafi nuovi o vecchi; l’impostazione dello scheletro delle nuove imbarcazioni; il restauro di quelle vecchie mediante la rinzaffatura con la stoppa delle fessure dei corsi del fasciame; la chiodatura del fasciame e la ribattitura dei chiodi; la costruzione di remi e delle sartie; la riparazione delle vele piccole e grandi.
Fondato nel 1104 dal Doge Ordelaffo Falier l’Arsenale di Venezia trae le sue radici dal bisogno di dare grande sviluppo alla cantieristica della Serenissima. La scelta della sua ubicazione non fu difficile, in quanto, per esigenze di difesa da eventuali attacchi nemici, si ritenne che la zona più idonea fosse quella compresa tra S. Pietro di Castello e la Parrocchia di S. Giovanni in Bragora (la Darsena Vecchia), anche in virtù del fatto che qui si trovava il punto di arrivo del legname del Cadore. All’inizio del secolo XIV, in seguito ad un aumento delle esigenze navali della città, fu incorporato il Lago di S. Daniele e costruito l’Arsenale nuovo (la Darsena Nuova). Con un’estensione di quasi 140.000 mq. era uno dei più grandi dell’intera Europa. Non si dimentichi che Venezia era una potenza marinara senza rivali nel Mediterraneo.
Aveva tre ingressi, uno dalla terra, uno dal mare, il terzo dal lato orientale, in comunicazione con la laguna. Gli ingressi erano chiusi da cancelli e difesi da torri, in particolare l’ingresso terrestre era costituito da un portale ad arco inquadrato da due coppie di colonne levantine su cui posava un’edicola con il leone di S. Marco in rilievo.

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12

CANTO XXVIII, 70-75

… – O tu cui colpa non condanna
e cu’ io vidi in su la terra latina,
se troppa simiglianza non m’inganna,

rimembriti di Pier da Medicina,
se mai torni a veder lo dolce piano
che da Vercelli a Marcabò dichina.

[- Tu che nessuna colpa condanna e che io vidi in terra italiana, se una somiglianza perfetta non mi inganna, ricordati di Pietro da Medicina, se mai torni a rivedere la dolce pianura padana che da Vercelli scende fino al castello di Marcabò.]

Dante si trova tra i seminatori di discordie condannati nella nona bolgia. Si è appena allontanato Maometto quando Pietro da Medicina, un dannato con la gola squarciata, il naso ed un orecchio recisi, lo riconosce e, spalancando la gola grondante di sangue, ancor prima di cogliere l’occasione per inviare il suo tragico avvertimento a Guido del Cassero e ad Angiolello da Carignano, gli augura con versi tremanti di nostalgia di tornare presto sulla terra a rivedere la bella Pianura Padana che viene qui delimitata nei suoi estremi confini, da Vercelli in Piemonte fino al castello-fortezza di Marcabò, all’estremo nord-est della pianura romagnola, e perciò ai confini di quella regione su cui spazia la nostra ricerca.

Giovanni Stradano, Seminatori di discordie. Inferno, Canto XXVIII.

Giovanni Stradano, Seminatori di discordie. Inferno, Canto XXVIII.

Giovanni Stradano [Public domain], da Wikimedia Commons

La rocca di Marcabò era stata costruita dai Veneziani nel 1258-1260 per dominare la navigazione fluviale sul ramo del Po di Primaro. I guelfi di Romagna, alleati con il Papato, la conquistarono il 24 settembre 1309 e la distrussero. L’anno della distruzione della fortezza è un riferimento importante per la stesura e la datazione dell’Inferno che, ovviamente, non sono avvenute, oltre il 1309.
Il nome è rimasto poi a una zona paludosa, oggi bonificata, compresa tra l’antico corso del Lamone, ora occupato dal canale di bonifica destra del Reno, e l’antico corso del Primaro, ora occupato dal Reno. La fama del castello, importantissimo per i Veneziani, durò a lungo dopo la sua distruzione.

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Franco Marchioro

La copertina del libro "Il Veneto nella Commedia di Dante".

Franco Marchioro, Il Veneto nella Commedia di Dante, Grafiche RGM, Monselice, per conto della CRDSL – Battaglia Terme, 2017 – pagine 28-38.

CRDSL: Centro per la Ricerca e la Documentazione sulla Storia Locale.
In questa versione digitale del testo sono state aggiunte delle immagini.
Ringraziamo la moglie di Franco Marchioro (1941-2015), sig.ra Luciana, per averci dato il consenso alla pubblicazione.