S. Bertazzo e G. Piovan, storie di deportati

IV
I FORZATI DELLA WALZERWERK

Viaggiarono quattro giorni …
Nel grigiore di una mattina invernale, una città apocalittica, videro i loro occhi. (16)
Fu una foresta (17) di ciminiere fumanti … fu un fracasso sordo di acciaierie … furono vampe di fuoco che balenarono a tratti … Scesero dai vagoni intorpiditi dall’immobilità dei quattro giorni e intirizziti dal freddo.
L’impressione di smarrimento che provocò in me la vista delle mille ciminiere … dei giganteschi gaso metri … dei grovigli di ponti aerei … delle gru ciclopiche … del grigiore dei fabbricati … e il rumore cupo di colpi sordi … di meccanismi in moto … di seghe stridenti sul metallo … fu più acuta di quella provata, la prima volta, davanti al cieco silenzio del reticolato di Hohenstein. (18)

Il complesso siderurgico di Völklingen, dove lavoravano i deportati.

Il complesso siderurgico di Völklingen, proclamato nel 1994 dall’UNESCO patrimonio dell’umanità, si è trasformato oggi in un autentico museo.

Lokilech attraverso Wikimedia Commons [CC BY-SA], con modifiche.

Camminammo lanciando sguardi di sorpresa meraviglia ai tram che passavano veloci … alle macchine elettriche che avanzavano lente, mugolanti … agli autotreni smisurati …
Lo sguardo sorpreso assunse aspetti di nostalgico rimpianto, quando passammo dinanzi ai cartelli pubblicitari dei cinema … ai negozi di calzature … di sartoria … mentre la sorpresa divenne bramosia feroce, dinanzi alle vetrine del pane … della carne …
La colonna infame fu seguita dagli occhi di tutti … nessuna compassione … nessuna pietà in quegli occhi …
Furono occhiate di disprezzo evidente, negli uomini, di derisione, nelle donne … ma quei miseri non se ne accorsero quasi. Furono chiusi nuovamente in un campo cinto di reticolati … Erano rimasti in trecento; altri duecento disgraziati li avevano preceduti, provenienti da altre parti.
In cinquecento iniziarono la vera tragedia della fame, innestata sul lavoro forzato …
Fui assegnato alla Walzer Werch (19) … me lo dissero due giorni dopo il mio arrivo e mi ricordo che, ad onta della mia angoscia, mi venne spontaneo il riso … Walzer … che ironia!

In alcuni lager spesso un'orchestrina accompagnava i condannati a morte.

L’angosciosa ironia di Viola è giustificata. In alcuni lager spesso i prigionieri andavano inconsapevoli incontro alla morte preceduti da un’ orchestrina.

Bundesarchiv, Bild 192-249 / CC-BY-SA 3.0 [CC BY-SA 3.0 DE] attraverso Wikimedia Commons, con modifiche.

Nella sala che doveva vedere le mie esibizioni di danza, feci il mio ingresso al quarto giorno.
Era grandissima … grandi lastroni di acciaio ne formavano l’impiantito … grosse lampade ad arco la illuminavano. A tratti una coppia di voragini ardenti si apriva, mentre due mostri mugghianti vi introducevano le loro chele gigantesche, estraendone masse accecanti di fuoco, che trasportavano poco lontano, per gettarle su speciali corsie mobili. Ciascun blocco scivolava su rulli girevoli, per incunearsi, con fracasso assordante e sfolgorio di scintille, sotto la compressione di due cilindri a rotazione inversa; con un intervallo di trenta secondi, riappariva allungato e compresso, poi ancora sotto i cilindri, e così di seguito, fino a che veniva ridotto ad una lunga e sottile striscia ancora rossa di fuoco.
Nel mio carnet di ballo segnai un nome … Gullo … non ne ho segnati altri in seguito … Gullo è stato il mio unico compagno di danza.
Era una grossa stanga di ferro, che dovevamo introdurre nelle bocche accecanti … Con lo Spizzer (20), così imparai a chiamare quello strumento di tortura, dovevamo smuovere i blocchi d’acciaio incandescente, nei forni infernali.
Ogni due minuti si alzava la porta del fuoco, per il nostro martirio … Il calore che ne usciva era atroce …. Quando agivamo alla leva per più di un minuto, le vesti cominciavano a fumare e, molte volte, dovetti scappare per le scottature terribili.
In un mese persi metà dei capelli … le sopracciglia e le ciglia caddero incenerite … la parte sinistra della mia faccia assunse l’abbronzatura del fuoco … un colore di sangue pesto.
Stillavamo di sudore davanti al forno aperto, e rabbridivamo nel gelo, quando avevamo un attimo di sosta. Lavoravamo dodici ore su ventiquattro, alternando una settimana di giorno e una di notte. Ogni ventiquattro ore si masticavano con rabbia 300 grammi di pane con 20 grammi di margarina vegetale o di salame fetido.
AI mezzogiorno ci dissetavano con un litro di decotto di rape. Durante le ore di lavoro, l’unico nostro pensiero era rivolto a quel pane da un chilo e 200 che dovevamo dividere in quattro alla sera e credo sia stato questo l’unico mezzo che ci ha salvati dalla pazzia del lavoro forzato.

L'uniforme indossata dai prigionieri nei lager nazisti.

L’uniforme tristemente nota dei forzati. In basso, sulla destra, gli zoccoli di legno.

(Per gentile concessione del Museo dell’Internato.)

Giungevo in fabbrica alla mattina alle sei, ancora col buio, intabarrato fino agli occhi in un pastrano lunghissimo e mezzo bruciato, con la faccia avvolta nell’ultima pancera di lana che mi era rimasta. Il mio andare barcollante per i digiuni era reso ancor più grottesco da due smisurati zoccoli di legno che portavo legati con filo di ferro ai piedi …
Tutti ridevano, vedendomi, e specialmente le donne … Ne vedevo molte in fabbrica e alcune, ora le capisco, abbastanza graziose, mi deridevano ed io mi compiacevo a sembrare più miserabile ancora di quello che ero, per destare pietà in loro … (è spaventoso ripensare alla mia decadenza morale in quei giorni) … Gioivo del mio aspetto disgraziato … gioivo nella speranza di un pezzo di pane …
Solo ora comprendo che erano attraenti quelle ragazze, e mi sembra inconcepibile la mia insensibilità di allora.
Molte volte la mia disperazione raggiungeva il parossismo e, in quei momenti, desideravo come una grazia, di rompermi una gamba … un braccio, oppure di ammalarmi gravemente per interrompere il lavoro … invidiavo i compagni tubercolosi … quelli gonfi per avitaminosi … quelli infettati di piaghe purulente, che riposavano all’infermeria.
Comprendo finalmente come si possa arrivare al suicidio …. Lo stadio a cui era giunto il mio spirito era il primo passo verso l’autodistruzione del mio corpo.
Quanto durò quel periodo? … Non ricordo con precisione, perché il passaggio ad un tenore di vita migliore è stato graduale, per completarsi con quello presente.
Mi sono dilungato un po’ nella sua descrizione, distogliendomi dal tema oggetto dello scritto, perché quei giorni non potevo tacerli.
Il loro ricordo sarà indelebile nella mia mente.

LA RINASCITA

Riprendendo, più particolarmente, la trattazione interrotta, in base ai fatti sopra descritti, concludo: l’istinto sessuale, completato da tutte quelle manifestazioni psicologiche che ne dipendono, diminuisce d’intensità con il decremento delle disponibilità alimentare, fino ad annullarsi, quando questa è così deficiente da provocar il fenomeno della fame.
Il bisogno del cibo, quando questo è scarsissimo nel tempo, annulla quello dell’erotismo. Vedere per questo il diagramma dell’allegato. (21)
Consideriamo ora le varie manifestazioni psicologiche umane e, in particolare, quelle dipendenti dall’istinto del sesso, quando, dopo un prolungato periodo di carenza nutritiva, questa diminuisce per gradi, fino ad annullarsi totalmente.
Come ho detto, nei fatti che ho osservato, a questo proposito, l’incremento alimentare è avvenuto per gradi nel tempo, e tengo a precisarlo perché, se fosse stato immediato, diverse sarebbero state le reazioni conseguenti.
I primi effetti di un simile miglioramento, si notano dopo alcuni giorni, ma nella rinascita progressiva del livello morale dell’individuo, si limitano a certi aspetti particolari di esso.
L’egoismo, prima feroce, diventa più temperato, l’invidia reciproca si riduce ad una considerazione più serena del maggior benessere di singoli, l’avidità cerca di trasformarsi in un disinteresse che però ancora è espresso a fatica, l’amicizia vera, prima soffocata, rinasce almeno in parte, un’allegria più sincera ritorna nel cuore di molti, l’attaccamento alla vita e, conseguentemente, lo spirito di conservazione, si risvegliano di nuovo.
In complesso sono questi i primi sintomi di un graduale ritorno alla normalità, sintomi che vengono completati da altri ancora, se il miglioramento di regime persiste nel tempo.
Conseguentemente, si comincia a notare nei soggetti una maggior cura nella pulizia personale, nel rendere più decente il vestiario mal ridotto, nell’assumere un passo più spedito. Il tutto denota un ritorno alla coscienza della propria dignità, di fronte agli altri.

[ … ]

L’analisi avrebbe potuto essere ancora più minuziosa, ma ho voluto limitarmi ai punti essenziali perché altrimenti … su … coraggio … non devo riserbare un falso orgoglio … perché altrimenti avrei dimostrato che la mia degenerazione mentale non ha più rimedio … Voglio lasciare ancora l’illusione di uno squilibrio parziale …

***

L’ultima pagina è strappata. Vi si leggono appena, scritte in matita nera e con grafia minuta, le parole: disponibilità e, sotto, alimentare.

Una storia parallela

Albania, 1942. Gruppo di soldati italiani; in primo piano, sdraiato, Giuseppe Piovan.

G. Piovan, sdraiato in primo piano. Albania 1942.

Il documento riportato nelle pagine precedenti è il tragico, monotono sfondo sul quale si sono consumati i drammi collettivi e personali di migliaia e migliaia di internati militari italiani.
Tra coloro che hanno avuto la fortuna di tornare e di narrarci le drammatiche vicende della loro prigionia c’è il battagliense Giuseppe Piovan, presidente dal 1995 della locale sezione dell’Associazione Nazionale dei Combattenti e Reduci. La sua storia sembra talmente intrecciarsi con quella di Sante Bertazzo e del prof. Viola che solo per caso, forse, non si sono incontrati e conosciuti. (22)
Giuseppe Piovan, classe 1919, in forza al 72° Reggimento di Fanteria, Divisione “Puglie”, sbarca a Durazzo, in Albania, il 16 febbraio 1941. Partecipa alle operazioni militari che si svolgono lungo le frontiere greco-albanese e italo-iugoslava in qualità di comandante di Squadra Mortai da 81. Catturato e fatto prigioniero dalle truppe tedesche a Kukes il 19 settembre 1943, viene internato nel campo XII D di Treviri col n. 38719 di matricola. Lavora nelle fonderie della Saar, quindi viene liberato il 17 marzo 1945 a Francoforte sul Meno. Rientra in Italia il 4 luglio 1945.
Ascoltiamolo.
Svolgevo tranquillamente il mio lavoro di barbiere a Terradura di Carrara S. Giorgio quando, inquadrato nella Divisione Puglie, fui mandato a combattere in Albania.

Albania, 1942. Il caporale Giuseppe Piovan nel suo lavoro da civile, quello di barbiere.

Il caporale-barbiere Giuseppe Piovan al lavoro. Albania 1942.

Non dimenticherò mai i sanguinosi combattimenti di Berat dove molti compagni di sventura perdettero la vita. A quota 731 le canne delle armi della nostra compagnia diventarono rosse a causa dei continui scontri. Poi ci trasferirono al confine con la Jugoslavia, nella zona del fiume Drin, ove fummo impiegati in attività di presidio e controllo del territorio.
L’8 settembre del 1943 la nostra compagnia si trovava a Kukes, mentre il Comando del Reggimento era nella vicina Prizren. La notizia dell’armistizio, diffusasi con estrema rapidità, ci trovò tutti impreparati. Pensammo che la guerra fosse finita e che il ritorno a casa fosse imminente. Ma, nello stesso tempo, pensavamo pure a quale avrebbe dovuto o potuto essere il nostro comportamento con gli ex alleati tedeschi con i quali, fino al giorno prima, avevamo combattuto, scherzato e giocato qualche partitella di calcio. Eravamo tutti ragazzi di ventitrè, ventiquattro anni! Nessuno riusciva a comprendere la situazione; eravamo come sbandati alla ricerca di qualcuno che ci dicesse cosa fare, dove andare.
Furono i partigiani di Tito che cominciarono a chiarirci le idee. Ci circondarono e pretesero che consegnassimo loro le nostre armi. I Tedeschi arrivarono subito dopo e ci assicurarono che ci avrebbero fatti rientrare in Italia, ma … disarmati. Potevamo forse scegliere?
Ignari di tutto, partimmo fiduciosi verso l’Italia, ben protetti dalle armi dei Tedeschi. Percorremmo a piedi i quaranta chilometri fino a Prizren e poi giungemmo a Pec, dove c’era un’importante stazione ferroviaria. I nostri protettori ci dissero che, essendo stati sabotati i binari, avremmo dovuto seguire un lungo percorso attraverso l’Ungheria e l’Austria.
Durante il viaggio le soste erano frequenti. Si riusciva a sopravvivere perché, durante le fermate, nessuno ci impediva di scendere e di fare qualche piccolo scambio con i civili. Ricordo di aver ceduto in Ungheria una maglia in cambio di una pagnotta. Non si vedevano sentinelle: sembrava una normale tradotta durante un normale viaggio di trasferimento verso l’Italia, se pur attraverso un percorso un po’ insolito.
Le cose mutarono improvvisamente appena arrivammo in Austria. Invece di dirigersi verso Tarvisio, il treno puntò su Monaco. I vagoni non si aprirono più. Le S.S. cominciarono a sparare su quelli che tentavano di scendere. Fu allora che con l’angoscia nel cuore ci rendemmo conto della nostra sorte. lo viaggiavo, insieme ad una trentina di deportati, in un vagone completamente chiuso. Quelli, invece, che viaggiavano nei vagoni aperti diventavano il bersaglio di fitte sassaiole e di grida sprezzanti: Badoglio!Badoglio!
Ci portarono in un campo di concentramento nei pressi di Dillingen, (23) al confine con la Francia, nella zona della Saar, e ci stiparono, a gruppi di cinquanta, dentro cupe baracche di legno. In duecento fummo mandati a lavorare in una fonderia. Il lavoro era duro e pesante, soprattutto per uno come me che, fino a quel momento, aveva adoperato solo forbici e pettini. Per otto ore di seguito dovevo far passare più volte dei grossi blocchi di ferro incandescenti tra due rulli enormi fino d ottenere delle pesanti lamiere.
Le forze a volte mancavano. La quotidiana brodaglia di carote e di patate non ci forniva sufficienti energie. Ero dimagrito in modo impressionante. Ma il lavoro non si doveva interrompere: eravamo perennemente sorvegliati da una minacciosa squadra di soldati tedeschi appena rientrati dal fronte russo.
La fame e il deperimento fisico condizionavano talmente la nostra esistenza che, pur di procurarci un po’ di cibo, avremmo compiuto qualunque azione. In cambio di pane e burro accettai le attenzioni notturne di un’operaia tedesca della fonderia. La storia durò una quindicina di giorni, poi dovemmo troncare perché la cosa era diventata pericolosissima.
Qualche tempo dopo ci fu nel campo un’adunata generale. I Tedeschi ci comunicarono che avremmo potuto tornare in Italia se avessimo scelto di combattere sul fronte di Cassino contro gli invasori americani, a fianco delle armate tedesche e della R.S.I. di Mussolini. Quando me lo chiesero personalmente, ben sapendo che i miei fratelli combattevano a fianco degli angloamericani, sentii nelle profondità del cuore quanto lacerante e drammatica fosse diventata la situazione in Italia. Risposi di no, perché mai avrei rischiato di sparare ai miei fratelli. Eravamo in duecento; una decina scelse diversamente.

Dichiarazione sottoposta alla firma dei deportati.

Dichiarazione sottoposta alla firma degli Internati italiani.

Dopo circa sei mesi fui ricoverato nell’infermeria del campo, perché una tagliente lamiera di ferro mi era caduta sopra una gamba e mi aveva reso inabile al lavoro. Ogni tanto mi spargevo del sale sopra la ferita. Un giorno, me lo ricordo bene, un tenente polacco s’accorse che mi medicavo col sale e, in un italiano molto stentato, mi fece comprendere che se i Tedeschi si fossero accorti di quanto stavo facendo, mi avrebbero mandato a Mauthausen. Avevo già sentito quel nome sinistro che faceva rabbrividire: interruppi immediatamente la cura.
Ma la sorte mi aiutò. Proprio mentre riacquistavo l’uso della gamba, si ammalò il prigioniero che tagliava barba e capelli alle sentinelle. Fui così prelevato dall’infermeria e cominciai ad esercitare la mia professione anche nel lager. Faticavo di meno e ricevevo qualche marco di mancia. Inoltre, munito di un lasciapassare della Gestapo, fui autorizzato ad uscire dal campo per andare a tagliare i capelli nelle case delle Sehultzstaffeln. In cambio ricevevo qualche pezzo di pane e perfino qualche patata. Quando rientravo nel campo venivo accolto dai miei compagni di sventura a braccia aperte e con gioia distribuivo loro quello che avevo raccolto. Non è facile, oggi, credere a quanta felicità potesse suscitare allora e in quelle circostanze una semplice, umile patata.
Sempre a proposito di patate vorrei ricordare un piccolo episodio. Erano passati pochi giorni da quando un soldato tedesco mi aveva colpito sulla schiena col calcio del fucile perché avevo prelevato una patata in più di quanto stabilito. Rabbioso e dolorante pensai: se ti trovo fuori, ti ammazzo! Non sono sicuro di averlo solo pensato; potrei anche averlo sussurrato a denti stretti. Mentre mi recavo a casa di un cliente, lo vidi poco lontano: sembrava che mi stesse aspettando. Gli passai davanti, lo salutai, ricambiò il saluto. Tutto finì lì. Capii che il nostro rancore era solo il frutto perverso, ma passeggero, della guerra.

Giuseppe Piovan, scheda notizie del Distretto Militare di Padova.

Il documento riporta, tra l’altro, il campo di prigionia (Trier – XII D) e la città (Francoforte sul Meno) in cui il caporal maggiore Giuseppe Piovan fu costretto a lavorare.

Ai primi di aprile del 1945 le sentinelle tedesche sparirono improvvisamente e ci trovammo liberi. Arrivarono le truppe americane e cominciammo a respirare un’aria nuova.
Da dieci anni sono presidente dell’ A.N.C.R. di Battaglia Terme. Il gruppo degli internati battagliensi nei lager della Germania si riduce sempre più. Siamo ormai rimasti in pochi, ma anche se siamo pochi vorremmo far sentire la nostra voce. Vorremmo che le nostre dolorose esperienze insegnassero ai giovani italiani ed europei a volersi bene e a rispettarsi. Ma li invitiamo soprattutto a vigilare perché le atrocità e gli orrori di cui noi siamo stati spettatori e protagonisti non si ripetano più. Mai più.

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Giuseppe Zoccarato

Carta dei campi di concentramento

Carta dei campi di concentramento.

MILITARI DI BATTAGLIA TERME
PRIGIONIERI DELLE TRUPPE TEDESCHE
DURANTE LA II GUERRA MONDIALE

(a cura di Bruno Savin)

Franco Marchioro

NOTE

(1) È assai probabile che le pagine strappate contenessero notizie assai interessanti sull’autore, i luoghi e i tempi in cui si sono svolti gli avvenimenti narrati, e perciò furono censurate da parte dell’autorità militare.

(2) Vi sono alcuni elementi, però, che sembrano mettere in dubbio l’intensità di tale amicizia. Viola dimostra di non conoscere il cognome dell’amico, lo chiama infatti Bertazzi. Non solo. Scrive che a Sante è nato un bimbo e non una bimba come è davvero accaduto.
Pur considerando le tragiche circostanze del momento e la possibilità di errori, non sembra verosimile che ciò possa essere accaduto tra amici autentici. Si trattò, forse, di un rapporto di solidarietà umana sorto necessariamente come diga al dramma quotidiano.

(3) Bertazzo Sante, classe 1912, fu richiamato alle armi il 15 gennaio 1941. Partito da Sacile con il 71° Reggimento di Fanteria ed imbarcato a Bari, giunse a Durazzo (Albania) il 19 febbraio. Catturato dai Tedeschi a Prizren il 9 Settembre 1943, fu deportato in Germania.

(4) Il 26 gennaio 1942. Sante aveva avuto una licenza di un mese per sposare la signorina Maria Trovò.

(5) Fu internato col n. 44521 nello Stammlager VI A di Hemer, una ventina di Km. a sud est di Dortmund e poi nella stessa Dortmund (Stalag VI D). Fu probabilmente trasferito ad Hohenstein (Stalag IV A), una cinquantina di km. a sud est di Lipsia, e poi sicuramente a Trier (Treviri) nello Stalag XII D, come documentano la foto della corrispondenza da lì inviata (vedi) e la tessera di riconoscimento n. 4988 dell’Associazione Nazionale Internati Militari, alla voce: Ultimo campo di internamento.

(6) Nel sito della città di Hemer si legge: “Italienische Gefangene der Badoglio Regierung wurden ab September 1943 als “Militärinterrnierte” in großer Zahl – zwischen 12.000 und 15.000 – in Stalag VI A festgehalten”. E, più sotto: “Das Stalag VI A war mit einer Stärke von zuletz etwa 100.000 Kriegsgefangenen das größte auf dem deutschen Reichsterritorium.”

(7) Il 17 marzo 1944. In realtà si trattò di una bimba, Luciana, concepita dalla signora Maria durante l’ultimo permesso di Sante, nel Luglio del 1943.

(8) Il ritorno avvenne il 7 Settembre 1945, come lo stesso Bertazzo annotò in un cartoncino inserito nel Foglio di congedo illimitato.

(9) Sul retro del lasciapassare si legge: Keep this card at all times to assist your safe return home. The Registration Number and your name identify you anf your Registration Record.

(10) Si intende: decotto di rape.

(11) “Al mattino colazione con caffè (così lo chiamavano loro, forse per il colore), più 220 grammi di pane scuro e 10 grammi di margarina. Il pranzo era costituito da un miscuglio di erbe, oppure di rape bianche”. R. Bertin, Solo la speranza, La Galiverna 1998, pag. 14.

(12) “… fummo caricati tra spintoni e bastonate in vagoni da bestiame pregni di fetore nauseante.” R. Bertin, op.cit., pag. 10.

(13) Tanto durò il viaggio nei carri bestiame dal lager di Hemer a quello di Hohenstein che, in linea d’aria, distano tra loro circa 350 km.

(14) “Ci accompagnarono nelle baracche di legno. I posti letto erano i già da noi conosciuti castelli in legno a due piani con materasso di paglia.” R. Bertin, op.cit. pag. 7.

(15) “Per vincere i sempre più acuti crampi da fame, io e tutti gli altri avremmo venduto e contrattato, se fosse stato possibile, anche l’anima …. Mi sono privato, sempre per pane, solo per pane, di piccoli oggetti acquistati in Grecia …”. R. Bertin, op.cit., pag.15.

(16) Il viaggio durò approssimativamente quanto quello Hemer-Hohenstein e perciò la distanza complessiva presumibilmente va considerata simile. Considerando che Bertazzo fu internato, forse infermeria, nel campo XII D di Treviri, poco prima di essere liberato, è molto probabile che la città apocalittica, la foresta di ciminiere, dove Viola fu forzato, sia da ricercare tra le tante città industrializzate della Saar. Tra esse emergeva Völklingen, sia per modernità tecnologica che per imponenza di impianti minerari e metallurgici. Il centro industriale dista, tra l’altro, qualche decina di chilometri da Treviri e, pertanto, è verosimile che proprio questa sia la località raggiunta dai due amici. L’UNESCO ha dichiarato nel 1994 il complesso siderurgico di Völklingen Patrimonio dell’Umanità.

(17) “Dopo 11 giorni e 12 notti di viaggio, all’alba ho aperto gli occhi, mi sono alzato in piedi ed ho visto una città di ciminiere, quasi nera di fumo …”. Così scrive Piero Guerra nei suo ricordi Da deportato ai lavori forzati. L’industrializzazione della Germania stupiva evidentemente i deportati italiani provenienti da un paese che, nonostante gli sforzi del regime fascista, era rimasto sostanzialmente agricolo.

(18) Il testo reca Honestein, unica, ma anche errata, in quanto il toponimo non esiste, precisazione geografica presente nell’intero documento.
La località va identificata con Hohenstein (oggi Hohenstein-Ernstthal) in cui fu effettivamente attivo lo Stammlager IV A che assolse alla sua cupa funzione fino alla fine della guerra.

(19) Il termine corretto è Walzerwerk (= laminatoio). Si tratta evidentemente di un’industria siderurgica che funzionava a pieno regime, nel tentativo di rimpiazzare il materiale bellico perduto di cui la Wermacht aveva estremo bisogno. Sul nome, che evoca un passo di danza, Viola ha ancora la forza di fare dell’amaro sarcasmo. Non si dimentichi, in ogni caso, la perfidia nazista che ad Aushwitz, mentre migliaia di infelici si incamminavano ignari verso le camere a gas, diffondeva nel campo allegri motivetti desunti dalla Vedova Allegra e dai Racconti di Hoffmann.

(20) Il termine corretto è Spitzer.

(21) L’allegato era riportato, con molta probabilità, nell’ultima pagina strappata.

(22) Sante Bertazzo sbarca col 71° Reggimento di Fanteria, Divisione “Puglie” a Durazzo il 19 febbraio 1941. Giuseppe Piovan vi era sbarcato il 16 febbraio col 72° Reggimento. Il primo viene catturato dai Tedeschi a Prizren il 9 Settembre 1943; il secondo a Kukes a pochi chilometri da Prizren il 19 dello stesso mese. Entrambi sono internati nel campo XII D di Treviri.

(23) Centro siderurgico e meccanico sul fiume Saar, una cinquantina di chilometri a sud di Treviri. Attualmente fa parte di un unico, enorme complesso industriale che comprende Saarbrucken, Völklingen, Saarlouis ed altre località.

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Trionfi Carlo, La vita di un prode. Il Generale Alberto Trionfi. Soc. Apostolato Stampa, Roma, 1946.

Memorie di deportati, copertina.

Testo tratto da: Franco Marchioro, Memorie di deportati. Un documento inedito dall’inferno dei lager. La Galiverna, Battaglia Terme, 2006. Sono qui pubblicate anche alcune delle foto presenti nel libro.

Ringraziamo la moglie di Franco Marchioro, sig.ra Luciana, per averci dato il consenso alla pubblicazione.

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Centro per la Ricerca
e la Documentazione sulla Storia Locale
Battaglia Terme

Consiglio Direttivo
Antonio Romano – Presidente
Dina Grossi – Vice Presidente
Giuseppe Bonafè – Segretario / Tesoriere
Luciano Donato – Consigliere
Ermanno Orlando – Consigliere
† Cesare Saccardi – Consigliere
Bruno Savin – Consigliere

Franco Marchioro (Este, 1941 – Battaglia Terme, 2015).
Laureato in Lettere all’Università di Padova, è stato per oltre tre decenni titolare della cattedra di Letteratura italiana e Storia negli Istituti Tecnici Statali.
Dal 1977 ha abita a Battaglia Terme.
Ha pubblicato:
Il Museo Civico della Navigazione Fluviale di Battaglia Terme, La Galiverna 2003.
( www.provincia.padova.it/museo_navigazione )
Battaglia Terme: un piccolo. grande paese, La Galiverna 2004.
Battaglia Terme: paese d’acque, La Galiverna 2005.
Echi di storia nazionale nei Consigli comunali di Battaglia Terme, La Galiverna 2005.
Il viaggio di Dante, La Galiverna 2005.