S. Bertazzo e G. Piovan, storie di deportati

Le drammatiche vicissitudini di Sante Bertazzo e Giuseppe Piovan, due soldati battagliensi deportati nei lager nazisti nel corso della Seconda guerra mondiale.

MEMORIE DI DEPORTATI

Un documento inedito dall’inferno dei lager

Stammlager VI A di Hemer.

Parlamento Italiano, Legge 20 luglio 2000, n. 211 Istituzione del “Giorno della Memoria” in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti.
Art. 1

1. La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, “Giorno della Memoria”, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli Italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati.

Art. 2

1. In occasione del “Giorno della Memoria” di cui all’ articolo 1, sono organizzati cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere.

Gazzetta Ufficiale n. 177 del 31 luglio 2000

Sono passati ormai oltre sessant’anni dalla conclusione dell’ultima guerra, una delle più sanguinose della storia d’Europa, ma quanti hanno vissuto quei terribili e tragici momenti – militari o civili – ne conservano ancora dolorosa memoria.
Ed anche chi non è più tra i superstiti ha lasciato segni che ravvivano il ricordo di quelle terribili vicende.
È dovere morale e civile nei confronti di quelli che hanno vissuto e sofferto tali tragedie ricordarne le sofferenze patite e le umiliazioni subite.
La pubblicazione che il Centro per la Ricerca e la Documentazione sulla Storia Locale presenta, contiene storie di uomini che hanno partecipato a quella guerra e hanno vissuto il dramma della deportazione e della prigionia; vicende dolorose che vengono portate alla luce e proposte a tutti: per non dimenticare.
Abbiamo accolto con entusiasmo la proposta di Franco Marchioro di rendere pubblica la vicenda umana di Sante Bertazzo e di documenti dallo stesso affidatigli.
Dobbiamo al suggerimento di Dino Grossi poter presentare il racconto dell’avventura militare e di deportazione del concittadino Giuseppe Piovan.
Un vivo ringraziamento a Bruno Savin per la approfondita ricerca sui deportati nati o residenti a Battaglia.
È questo il nostro contributo alla celebrazione del Giorno della Memoria, doveroso ricordo di tante sofferenze ed ammonimento a vigilare affinché non si ripetano simili tragedie, non disgiunto peraltro da un pressante richiamo al solenne, impegnativo e vincolante dettato dell’art. 11 della Costituzione della nostra Repubblica: L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente in condizione di parità con gli altri Stati, alle limitazioni della sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le Organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.

Antonio Romano
Battaglia Terme, Gennaio 2006

Presentazione
Testo (A Sante Bertazzo)
Una storia parallela (Giuseppe Piovan)
Elenco dei militari battagliensi prigionieri

Albania, 1942. Il fante Sante Bertazzo con il suo mortaio.

Il fante S. Bertazzo in posa presso il suo mortaio. Albania 1942.

PRESENTAZIONE

Una cartella dimenticata.

La signora Maria Trovò Bertazzo è oggi una bella signora ultranovantenne, un po’ curva, ma ancora molto lucida e sempre sorridente.
Quando le ho confidato che mi sarei occupato delle carte che suo marito aveva portato a casa dalla Germania, ha avuto un brivido, il volto le si è illuminato e, sorridendomi più del solito, si è dichiarata disposta ad aiutarmi.
Qualche anno prima di cedere ad un male incurabile, Sante Bertazzo mi aveva consegnato una cartella di fogli ingialliti. Benché avessi compreso dalle sue parole che egli la considerava particolarmente importante, distratto da altre vicende, non la esaminai più di tanto; ringraziai e la deposi nel fondo di un cassetto.
Ora me ne rammarico, ma è troppo tardi.
Il desiderio di disseppellire quei fogli s’è risvegliato in me durante la celebrazione della Giornata della Memoria 2005, dopo aver ascoltato le penetranti e commosse parole dell’ex prigioniero di guerra Rino Bertin, stimato concittadino.
Ho frugato con apprensione nei cassetti. Fortunatamente quei fogli erano ancora lì … e ho tirato un sospiro di sollievo.

Analisi del materiale.

Si tratta di un fascicolo di cm 21 x 29,5, rilegato in modo artigianale con quattro graffette metalliche allineate sul lato sinistro e con copertine di cartoncino sottile di colore grigio-azzurro. Le pagine originarie erano venticinque, quasi tutte scritte a macchina e solo su un lato. Della prima pagina rimane solo l’angolo inferiore sinistro; della decima solamente il margine graffettato; dell’ultima un piccolo frammento dell’angolo superiore sinistro. (1)
Le pagine 2-6 hanno un formato più piccolo e la carta è appena ingiallita. La quinta pagina è completamente vuota. La sesta riporta alcune parole scritte a mano con matita blu e con caratteri molto grandi.
Le pagine 7-25 sono di qualità diversa. Non solo la carta è molto più scura, ma diverso è pure il nastro utilizzato. Nell’angolo superiore destro è stata segnata, con matita rossa, una numerazione da 1 a 18.
Inserito tra le pagine, ma non rilegato, un foglio di carta di cm. 19 x 26 recante il ritratto del volto di una donna e, nell’angolo inferiore destro, una firma:
Prof. Viola.
Non esistono titoli, divisioni in paragrafi o note di alcun genere.

Ricerche.

L’ho letto e riletto più volte. Sono stato sul punto di riporlo una seconda volta, perché non vi trovavo elementi sufficienti per una accettabile interpretazione, né per una corretta collocazione nel tempo e nello spazio.
Chi ne era l’autore?
Come mai lo possedeva mio suocero?
Quando e dove si verificarono gli avvenimenti narrati?
Tuttavia i contenuti, pur così differenziati tra di loro, mi sono sembrati talmente interessanti e degni di attenzione che ne ho parlato alla signora Maria, nella speranza di ricavarne notizie e informazioni precise.
Conoscevo molto bene Sante, uomo di poche parole. Non amava parlare della guerra e della prigionia e ogni volta che, suo malgrado, sfiorava l’argomento, abbassava gli occhi per nascondere il velo delle lacrime. A me, che gli tenevo strette le mani, mentre moriva in un letto di ospedale, sussurrò: “È l’ultima battaglia … “. Non parlò più. Mai un lamento.
Non mi stupisco quindi di non aver raccolto molto dai colloqui con mia suocera, se non qualche importante, se pur parziale, conferma di ciò che avevo già intuito.
Sante le aveva detto, se pur con sobrie parole, di aver conosciuto durante la prigionia un uomo singolare, il prof. Viola; che tra di loro era nata un’amicizia fraterna; che sue erano tutte quelle carte scritte; che lui era l’autore del quel disegno ispirato ad una fotografia di lei, ancora fidanzata, che egli portava sempre con sé.

La signorina Maria Trovò ritratta dal prof. Viola; l’immagine è ricavata dalla fotografia che Sante portava con sé.

La foto della signorina Maria da cui il prof. Viola trasse il ritratto a matita.

Nient’altro.
Un po’ più fruttuose sono state un’attenta ricognizione tra le vecchie, disordinate carte di famiglia di Sante e di Maria, qualche ricerca in biblioteca, sul web, presso l’ A.N.E.I. e il Museo dell’Internato di Padova, uno scambio di mail con la Germania: sono emersi alcuni documenti originali, foto e alcune notizie che consentono di gettare un po’ di luce sugli avvenimenti narrati nel fascicolo.

Il professor Viola.

Tuttavia, chi avrebbe potuto chiarire ogni cosa non c’è più. Rimangono, perciò, irrisolti almeno due interrogativi. Il primo riguarda il prof. Viola, l’autore dell’intero documento, il secondo il rapporto di fraterna amicizia che legò i due compagni di sventura.
Come si comprenderà leggendo le pagine che seguono, Viola è sicuramente una persona colta. Altrettanto evidente è il suo intendimento letterario, come traspare in modo inequivocabile dalle variazioni stilistiche che modula nelle sue pagine e che ben si adattano ai differenti registri narrativi. Le risultanze che ne conseguono sul piano estetico ed emozionale sono, in più di un’occasione, davvero rimarchevoli.
Visto che si firma col titolo di prof., e che, a volte, il suo stile non sembra alieno da qualche influenza montaliana:
Il padre non era a vederlo …,
o marinettiana:
.. fu una foresta di ciminiere fumanti… fu un fracasso sordo di acciaierie…
furono vampe di fuoco che balenarono a tratti…,
che sia stato un insegnante di materie letterarie?
Se poi esaminiamo il ritratto a matita della signorina Maria e lo confrontiamo con la fotografia che l’ha ispirato, non si possono non notare la leggerezza, l’eleganza e la sicurezza del segno, l’espressività degli occhi, la dolcezza del sorriso, la raffinata precisione dell’orecchino pendente, la delicatezza del chiaroscuro nelle pieghe del volto. Che sia stato un docente di disegno in qualche istituto d’arte?
Se, infine, consideriamo quelle parti del suo scritto nelle quali, deliberatamente, si propone di analizzare le conseguenze della scarsità di cibo sull’istinto sessuale e sulla psicologia degli internati, ed osserviamo le accurate scelte lessicali o la precisione scientifica delle osservazioni, dobbiamo concludere che sia stato un docente di psicologia? O, forse, un medico primario d’ospedale?
Comunque sia, ebbe a disposizione una macchina da scrivere, carta, matite e soprattutto tempo per scrivere e meditare in relativa tranquillità. Un privilegio non da poco! Probabilmente il prof. Viola venne sfruttato per la sua cultura, forse conosceva un po’ di tedesco, e affiancò come interprete qualche ufficiale o, più probabilmente, ricevette qualche incarico contabile o amministrativo, come di solito accadeva alle persone colte in uniforme.
Forse fu proprio in questa veste che conobbe il fante Bertazzo e può darsi pure che, avendone notate le doti di affidabilità e di discrezione, l’abbia scelto, almeno per qualche tempo, come suo assistente.

Il professore e il fante.

Poco o nulla sappiamo della loro amicizia e di quando essa sia sorta. Sappiamo solo che c’è stata, e forse già dai tempi dell’Albania.

Febbraio 1941, contingenti militari italiani sbarcano sul litorale albanese.

Contingenti militari italiani sbarcano sul litorale albanese. Febbraio 1941.

Lo prova il ritratto di cui s’è detto; lo prova la prima parte del fascicolo dedicata interamente a Sante e alla sua storia di soldato, di prigioniero, di padre e di forzato. Lo prova il fatto che proprio a Sante Viola ha consegnato il suo scritto, anche se ne ignoriamo il motivo.
Come Bertazzo abbia contraccambiato tale amicizia nessuno ce lo dirà più.
Ma è consolante pensare che in quei luoghi infernali, nei quali Sante si chiamava 44521 e Viola … non lo sappiamo … potesse esistere il più bello dei sentimenti: l’amicizia. (2)
I due amici condivisero sempre le loro tragiche disavventure, come la cattura in Albania, la deportazione in Germania, l’internamento nello Stammlager VI A di Hemer presso Dortmund e VI D di Dortmund stessa, il trasferimento ad Hohenstein, il secondo trasferimento nella città apocalittica, il campo XII D di Trier e il lavoro forzato alla Walzerwerk?

Posta per il Kriegsgefangenen n. 44521 dello Stammlager VI A di Hemer. I prigionieri sani del campo venivano mandati a lavorare nelle miniere.

Bertazzo scrive alla moglie dallo Stammlager XII D di Trier, dove sarà liberato.

I pochi documenti da me raccolti non consentono di dare alcuna risposta certa, ma parrebbe di si, benché l’autore non solo non lo affermi esplicitamente, ma parli di un certo Gullo come unico suo compagno di lavoro davanti ai forni infuocati. È molto probabile che Bertazzo, affetto da piaghe purulente alle gambe, come Viola stesso racconta nella prima parte, sia stato prima ricoverato in infermeria e poi esonerato dal lavoro forzato, suscitando nell’amico sano, ma col volto del colore del sangue pesto, privo di capelli, di ciglia e sull’orlo della disperazione, l’invidia per quei forzati che, infettati di piaghe purulente, riposavano all’infermeria.
L’altro motivo che mi induce ad immaginarli vicini, o comunque nello stesso campo, è che il prof. Viola ha pure consegnato a mio suocero la sua cartella azzurra, il che non sarebbe potuto accadere se le loro strade si fossero divise.
L’unica domanda alla quale non sono riuscito a rispondere è perché mai Viola, che pur scrive di essere sopravvissuto alla tragedia, abbia consegnato la cartella a mio suocero e non se la sia tenuta. Qualche cosa evidentemente mi sfugge, ma non credo sia molto importante.
L’importante è poter leggere, meditare e riflettere su un documento autentico che sembra provenire da un mondo che non ci appartiene, ma che in nessun caso, mai, dobbiamo rimuovere dalla memoria.

Cartina con i probabili spostamenti dei soldati Bertazzo e Piovan durante la loro prigionia in Germania.

Ricostruzione dei probabili spostamenti dei due protagonisti durante gli anni di prigionia in Germania: 1. Hemer, Stammlager VI A e Dortmund. Stammlager VI D. 2. Hohenstein, Stammlager IV A. 3. Trier, Stammlager XII D. 4. Völkinglen, sede della Walzerwerk.

Analisi del testo:

PARTE PRIMA

I. ALL’AMICO SANTE.

Il fascicolo inizia senza alcun titolo o preambolo. Occorre leggere qualche riga per comprendere di chi si scrive, e occorre proseguire per comprendere l’intento dell’autore. Il protagonista assoluto è il fante Sante Bertazzo. Il prof. Viola ne parla elaborando un modello personale di prosa lirica che, accarezzando qualche velleità poetica, si propone di trasfigurare un semplice soldato in un umile, inconsapevole eroe.
Assediato da un mondo che gli rovina addosso e che gli corrode le carni, Sante resiste. La sua forza è il ricordo di Maria, la giovane sposa che lo attende. La sua gioia incontenibile, pur tra i reticolati e i morsi della fame, la notizia di una bimba che è nata, sua figlia. E si addormenta con l’esultanza nel cuore. La vita trionfa sulla morte. Il calore, se pur solo sognato, della famiglia scioglie il gelo del lager.

PARTE SECONDA

II. FAME E SESSUALITÀ.

Quindi, con un brusco passaggio, evidenziato anche da un diverso formato dei fogli di carta, l’argomento muta radicalmente. L’Autore dichiara che è sua intenzione trattare le relazioni esistenti tra l’assimilazione di cibo e la sessualità dei deportati: un altro mondo, un altro autore.
L’esposizione diventa scientifica, distaccata, assume la fredda impassibiltà di una relazione tecnica. Si citano numeri, dati, si eseguono calcoli. […]
Ma, dopo aver annunciato un’ulteriore analisi di approfondimento, Viola improvvisamente tace. II silenzio che segue, reso graficamente con due righe di punti, sottintende l’inatteso, perentorio ordine di trasferimento da Hemer o dalla vicina Dortmund a Hohenstein.

III. LE CRISALIDI DI HOHENSTEIN.
IV. I FORZATI DELLA WALZERWERK.

Inizia una lunga, drammatica digressione nella quale l’autore, travolto dagli avvenimenti, abbandona completamente lo stile asettico del relatore scientifico e riprende gli stilemi lirici che avevano rese vitali le prime pagine, ritenuti probabilmente i mezzi più efficaci per descrivere la sorte di 1800 organismi umani, coscienti ancora, ma inconsapevoli di ciò che li attende
Sono pagine drammatiche di tragica suggestione, l’evocazione di un incubo che non desidero commentare, che non voglio sciupare con inutili parole, ma che mi hanno fatto comprendere perché mio suocero, di fronte a questa realtà, inumana e allucinante, abbia scelto il silenzio, un silenzio lungo e turbato, inumidito di lacrime. Sono pagine che, al di là delle emozioni che suscitano, vanno apprezzate anche per la loro valenza letteraria, sicuramente superiore ad ogni intendimento documentaristico o di rivalsa politica.
Traspare in esse un piccolo, infinitamente piccolo frammento di una delle più grandi e folli tragedie della storia. Affiorano alla mente i versi del nostro Poeta:

Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli
…………………………………………
e se non piangi, di che pianger suoli?

Campo di concentramento di Buchenwald, prigionieri all'interno di una baracca.

L’inumana e allucinante condizione degli internati nei lager.

Private H. Miller. (Army) attraverso Wikimedia Commons [Public domain]. Elaborazione di C. Donà.

V. LA RINASCITA.

Le ultime pagine del documento sono dedicate alla conclusione della trattazione interrotta. Viola riprende lo stile e l’atteggiamento scientifico iniziali e, coerentemente con la migliorata situazione generale che implicava un incremento alimentare, se pur avvenuto per gradi nel tempo, continua a discettare sul rapporto tra cibo e sessualità e sulle sue risultanze nei corpi e nelle anime dei deportati, ma questa volta in chiave positiva, come se quegli infelici stessero per uscire da una lunga malattia e, confusamente, riesumassero un qualche sapore della vita.
L’analisi “medica” è affiancata da quella psicologica. Le crisalidi umane di Hohenstein, i forzati senza ciglia della Walzerwerk si ricordano di essere uomini, si guardano, diventano coscienti della loro miseria, desiderano lavarsi, vestirsi meglio, si ricordano delle donne, parlano d’amore …
A stento, come un fiore selvatico tra le pietre, la vita rinasce.
Ma rimangono anche le cicatrici, profonde, indelebili. Ne abbiamo una prova nelle ultime, reticenti frasi con cui il prof. Viola conclude la sua relazione, frasi in cui trema la paura della degenerazione mentaledi uno squilibrio parziale

***

Le divisioni in parti e in capitoli sono opera del curatore.

[ … ]

TESTO

PARTE PRIMA

I
ALL’ AMICO SANTE (3)

C’era ancora solo la mamma che pensava a lui, ed era solo la mamma che egli amava.
Aveva venticinque anni e non conosceva un amore diverso da quello che lo legava alla madre. Essa lo sapeva, però, che sarebbe venuto il giorno in cui il figlio si sarebbe separato da lei.
Lo sapeva e temeva un po’ quel giorno.
Fu quel giorno, e gli occhi della mamma se ne accorsero subito. Sospirò un po’ sconsolata, ma vinse l’egoismo naturale della madre e pianse contenta e senza gelosia, quando vide due sposi felici.
Era il gennaio del 1942 … (4)
La guerra divise appena uniti.
Lui partì per l’Albania, ma la sposa lo sentì sempre vicino. Lo rivide ancora, per attimi fuggenti, spesso, tutte le volte che lui riusciva ad ottenere un permesso, e sempre la lasciava sicuro di poterla ancora raggiungere dopo poco.
Fu nel Luglio del 1943, l’ultima volta che partì dicendo: – A presto! – Fu allora che il tempo lo tradì e li separò per molto.
Lui, soldato, fu travolto nella tragedia di un esercito disfatto e senza guida.
Fu prigioniero con altri. Fu deportato come un galeotto in un paese di morte. (5) Fu condannato al lavoro forzato. Fu minatore di carbone. Sentiva ancora quella voce tanto cara che lo invitava a restare, a non andarsene così presto, a rimandare di nuovo la partenza … domani … e poi ancora … domani …

Le cupe strutture dello Stammlager VI A di Hemer. (6)

La massa dei prigionieri nello Stammlager VI A di Hemer presso Dortmund.

L’ultima volta che l’aveva udita, aveva risposto che la prossima settimana sarebbe tornato, che dopo poco sarebbe scappato ancora per raggiungere la casa.
Non aveva potuto mantenere la promessa ed ora sentiva il pianto anelante, ripensando all’attesa senza speranza, di chi credeva in lui.
La realtà tragica del momento cercò di cancellare in lui il sogno, la realtà impossibile, con tutti i mezzi … la fame, il lavoro forzato in una tomba di vegetale fossile, l’odio, il disprezzo del prossimo.
La prova fu tremenda.
Lo spirito martoriato più volte fu in pericolo di essere sopraffatto dalla materia abbruttita e dagli istinti peggiori, ma il pericolo fu sempre, anche se spesso a fatica, soffocato.
Venerò il ricordo, come cosa sacra, cercò l’aiuto nella visione di lei, si confortò nella fede donata.
Il suo calvario continuò per molto.
Cessò di essere minatore, lasciò il buio della miniera, lavorò sul ferro rovente, nel fracasso assordante di una fabbrica di proiettili.
Era il Marzo 1944. In una casa del Padovano un bimbo nasceva. (7) La mamma lo guardava con occhi velati … Il padre non era a vederlo, il padre era lontano.
Gli fu scritto. Ebbe la lettera la sera, dopo il lavoro. Era rientrato allora nel reticolato, stanco e affamato.
Vide lo scritto noto … lesse palpitante. Quando ebbe finito, piangeva …
Un compagno, poco discosto, divideva un pane in quattro parti.
Altri due seguivano il suo lavoro, con occhi avidi. I pezzi furono allineati sul tavolo … gettarono la conta in tre … il quarto non pensava a loro.
Aveva la lettera in una mano contratta, gli occhi fissi, sorridenti, come se una dolce visione li colpisse.
– Un bimbo … una creatura di cui sono padre … un essere che è mio contro tutto e contro tutti di cui nessuno potrà togliermi il diritto sacro … mi credevo un miserabile … ed ora mi sento il più felice degli uomini … la realtà che vivo non conta … –
Prese il pane che vollero dargli, senza discutere, mangiò senza avidità. Si addormentò con l’esultanza nel cuore.
La vita infernale continuò ancora …
Ad accrescere il suo tormento, piaghe purulente gli infettarono le gambe. La tortura fisica divenne atroce, ma la forza morale trionfò ancora … non disperò.
Il bimbo cresceva … aspettava il babbo lontano …
Il babbo doveva tornare …
Il babbo ritorna … (8)

Lasciapassare rilasciato dagli Alleati a Sante Bertazzo nel 1945.

Lasciapassare rilasciato nel 1945 dagli alleati a S. Bertazzo. (9)

***

Dopo un foglio completamente bianco, si leggono, scritte a mano a tutta pagina, le seguenti parole:

Bertazzi ricorda
chi considera giustifi
cato il furto di artico
li di cancelleria quando
questi sono monopolizzati.

Come interpretarle?
Una risposta di Viola a Bertazzo, amico e compagno di sventura, ma da cui forse è stato rimproverato, per scusarsi di aver sottratto da chissà quale ufficio dei fogli di carta e una matita per scrivere queste pagine?
Una critica ai regolamenti militari ed una contemporanea, orgogliosa rivendicazione dell’importanza e della libertà della cultura, necessità incoercibile?
Un affettuoso invito a ricordare un amico che gli rimette di tutto cuore la pena, per aver sottratto, magari per suo incarico, un po’ di carta?
Dove sono state scritte queste parole? E la pagina è stata inserita al posto giusto?
È difficile dare una risposta. Le carte sono mute.

PARTE SECONDA

II
FAME E SESSUALITÀ

Ho affrontato la tragedia della fame con 1800 compatriotti.
Sono sopravvissuto alla tragedia e, con 300, ho iniziato la farsa della supernutrizione.
Ho potuto seguire gli effetti, dei quali è stata causa l’incostante disponibilità nutritiva, attraverso le manifestazioni degli individui, sottoposti alla stessa prova. Tratterò di uno degli aspetti più interessanti del complesso di dette reazioni e, più particolarmente, della relazione che passa tra l’assimilazione maggiore o minore di principi alimentari e il desiderio di concupiscenza e, per maggiore analisi, tratterò dei vari aspetti assunti da quest’ultima, nelle sue manifestazioni.
Parlerò ora dei fatti osservati e poi ne trarremo le conseguenze.
18 mesi – 500 uomini – 81.000.000 di grammi di pane – 270.000 litri di rape (10) – 5.400.000 grammi di salame e, analizzando: 1 giorno – 1 uomo – 300 grammi di pane – 1 litro di rape – 20 grammi di salame: formula alimentare che, dopo numerose esperienze, è stata definita come l’unica che, col minore valore assoluto, possa assicurare, a regime minimo, lo svolgersi delle funzioni vitali di un normale organismo umano. (11)
I primi sintomi sugli effetti deleteri di un sistema nutritivo simile, si manifestano dopo circa sette giorni e acuiscono le loro caratteristiche nel tempo, fino a raggiungere un massimo dopo un mese, oltre il quale, fisso restando il regime alimentare, l’aspetto assunto dall’individuo si mantiene costante. Tutto questo tanto nei campi morfo-fisiologico che psichico.
[…]

III
LE CRISALIDI DI HOHENSTEIN

Un convoglio tragico … 80 carri bestiame e una locomotiva dal fischio che è urlo di morte (12) … 1800 organismi umani, coscienti ancora, ma inconsapevoli di ciò che li attende … 120 ore attraverso un paese maledetto (13) … stridore di freni nel freddo di una sera autunnale … confuso alternarsi di voci diaboliche … sordo, ritmico rumore di zoccoli legnosi … un acuto odore di catrame e un disgustoso e indefinibile alito di stamberghe fumanti … alti reticolati spinosi … lunghe baracche di legno … strane piattaforme su pali incrociati … riflettori lancinanti … grosse squadre di figure, umane solo nella statura, incedenti a passo lento, faticoso; organismi diabolici le comandano e le guidano …
Ciò hanno visto, in una fredda sera nordica, i 1800 individui e ciò non potranno dimenticare.
Da quel tramonto ebbe inizio la loro grande tragedia …

[ pagina strappata ]

… cora la vita dei liberi e fu l’ultima volta che, osservando, considerarono la loro con quel senso di quasi umorismo che fino allora li aveva animati.
Era alta due metri e mezzo la rete che li chiuse. Era una semplice rete di di filo spinato, ma la sua vista fu quella che agì più tragicamente di tutto il resto, sullo spirito ormai stanco di ognuno.
Il riso divenne forzato … il motteggio grottesco.
Grosse lampade di riflettori abbagliavano … nella loro luce diffusa una città, alitante di catrame, apparve in un attimo …
Larghe strade col fondo in traverse legnose, fiancheggiate da reticolato spinoso. Oltre la rete file interminabili di baracche dal tetto spiovente, tutte uguali … e poi ancora il reticolato e dietro altre baracche sempre uguali, in un motivo di monotonia desolante. Questo carattere di identità, di uniformità quasi cieca, avvolse nell’incubo l’animo dei disgraziati.
Furono introdotti nelle stamberghe … un castello a doppio piano in due file laterali, separate da una corsia centrale (14) … due tavoli … quattro panche di legno … due stufe spente … così l’arredamento delle case comuni.

Interno di una delle baracche di Auschwitz.

“Un castello a doppio piano in due file laterali…”.

L-BBE [CC BY], attraverso Wikimedia Commons, con modifiche. Elaborazione di C. Donà.

Si aggiustarono nell’oscurità … cercarono di dormire nel silenzio del buio … un fischio acuto … una voce stentorea li svegliò in un’alba di piombo … il freddo fu atroce … l’ultimo appetito formidabile … uscirono assonnati dinnanzi alle baracche … per cinque … vennero contati … più volte … per mezz’ora di gelo.
Rientrarono come stupiditi … pochi parlarono … i più si stesero di nuovo sui castelli … chi potè farlo aprì lo zaino, prendendone cibo … le poche sigarette accese furono prenotate da molti … alcuni si sedettero per giocare alle carte … altri tentarono di conversare, ma il soggetto del loro parlare ebbe, in generale, carattere di serietà un po’ angosciosa.
Solo coloro che avevano avuto la possibilità di mangiare e di fumare, con lo spirito un po’ sollevato, vollero comunicare l’allegria agli altri coi discorsi del tempo libero … cercarono di scherzare e altri, astraendosi dall’ambiente e dall’aspettativa ignota, si unirono a quelli.
Si parlò molto di donne, di avventure piccanti … di grassa galanteria … si dimenticò, per un attimo, la tragedia per vivere la spensieratezza passata.
Le ore trascorsero senza tempo, quando lo stesso fischio e la stessa voce uditi all’alba, li fecero uscire. Fu detto di portare la gavetta …. In tutti si fece viva la curiosità palpitante del cibo imminente.
Per cinque percorsero la grande strada che sfilava dinanzi al loro gruppo di baracche … raggiunsero l’arteria principale della città dolente. Qui confluirono da altre strade nuovi gruppi di figure … innumerevoli … fino a che un’unica colonna interminabile di esseri bipedi, con fracasso sordo sul lastricato legnoso, avanzò verso un agglomerato di baracche fumanti.
Erano 75.000 … in mezz’ora ebbero la loro razione di cibo innominabile … rientrarono, quasi di corsa, nei dormitori … assaggiarono la brodaglia e i più la sputarono disgustati. Non si può descrivere la confezione di quella mistura.
Mi ricordo che, quel giorno, non la mangiai.
Divisero il pane avuto … furono otto persone su due chilogrammi di pane … per la prima volta affidarono alla sorte l’assegnazione dei pezzi divisi … così fecero per un impasto acido, che alcuni ebbero il coraggio di chiamare ricotta.
Erano le quattordici … tagliai i 250 grammi di pane e la ricotta gessosa in due parti uguali … ne mangiai una e conservai l’altra per la cena …
La curiosità del cibo era stata soddisfatta … Uno sgomento desolato si lesse sulla faccia di tutti … la coscienza della grande miseria che l’aveva colpita, si affermò nella massa, … sempre più, fino a che, dopo una settimana, lo spettro della fame cancellò, dalla mente di ognuno, qualsiasi altro pensiero … il problema del cibo divenne ossessione … si parlava solo di questo … nessuno ricordava le donne … i disgraziati si compiacevano dolenti, nel rimpianto dei piatti preferiti … degli alimenti disprezzati nel benessere passato … Si invocò il lavoro, perché si vide in questo l’unico mezzo per migliorare il cibo.

Deportati al lavoro forzato.

Deportati al lavoro.

Bundesarchiv, Bild 183-A0706-0018-020 / CC-BY-SA 3.0 [CC BY-SA 3.0 DE], attraverso Wikimedia Commons, con modifiche.

Chi riuscì a procurarselo, vendendo oggetti propri alle sentinelle, (15) vide concentrati su di sé, occhi carichi d’invidia feroce … si ebbero i primi furti … l’egoismo distrusse l’altruismo, anche in chi era sempre stato disinteressato …
Per contro, un’ondata di misticismo religioso trionfò in tutta la comunità dei miserabili: … ci si rivolgeva al Supremo come unico soccorritore …
La cieca vita del reticolato, senza contatto alcuno col mondo dei liberi, durò un mese.
Nella prigione priva di mura, erano entrati uomini … la moltitudine che ne uscì dopo un mese, fu un insieme di crisalidi umanizzate … nessuna cura era nel loro vestiario … nessuna cura essi ebbero degli sguardi ironici che li seguirono … sentirono freddo … trascurarono l’eleganza e si avvolsero strisce di stoffa attorno al collo … i più si incappucciarono nelle coperte, lasciando liberi appena gli occhi … ogni cento disgraziati, sessanta avevano zoccoli di legno che strascicavano come ciabatte …
Le donne dei liberi risero, e quei miseri pensarono al numero di bocche che avrebbero diviso un pane, dopo il mutamento in atto.
Avevano desiderato il lavoro come unico rimedio all’imbecillità dell’ozio coatto e alla deficienza alimentare ..
Il loro desiderio stava per esaudirsi …