Navigazione post unitaria e nuovi paesaggi

Nel periodo post unitario la navigazione fluviale incontra la straordinaria concorrenza della ferrovia e, pur con i dovuti ammodernamenti riguardanti sia le vie d’acqua che le imbarcazioni, inizia il suo progressivo declino.

Qui la premessa e il capitolo 1, qui il capitolo 2.

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3. LA NAVIGAZIONE POST UNITARIA

Il costante perfezionarsi delle tecniche per il prosciugamento meccanico dei terreni meno acclivi, nonché l’estendersi di specifiche scelte per l’irrigazione, costituiscono alcuni dei principali moventi per una più efficace applicazione delle competenze di ingegneria idraulica non solo nelle basse pianure a ridosso dell’alto Adriatico, ma in gran parte della Val Padana. La lezione francese di inizio ’800, con il rigore operativo degli ingegneri del Corp des Ponts et Chassueés, ha in buona parte condizionato le attitudini tecniche dei funzionari del Lombardo Veneto, favorendo l’adozione di visioni progettuali allargate e collocando quindi il singolo intervento all’interno del funzionamento del corrispettivo bacino idrografico. La maggiore attenzione rivolta ai regimi fluviali era ben correlata alla ripresa degli interventi per la bonifica, ponendo così le basi per una prima modernizzazione del territorio e tale scelta ebbe un ulteriore slancio dopo l’Unità d’Italia [Cavallo, 2011]. Le ciminiere delle pompe idrovore a vapore andavano svettando tra i piatti orizzonti della bassa, non diversamente dal primo addensarsi delle fabbriche attorno ai centri urbani, collegati tra loro da sferraglianti locomotive, la cui diffusione stava ridimensionando, in tutta Europa, la preminenza dei trasporti fluviali. Il dibattito sul ruolo della navigazione in acque interne tenne viva l’attenzione sia dei tecnici che degli investitori, alle cui aspettative dovevano poi dar seguito adeguate scelte politiche. Il centro di Battaglia, con la costruzione dell’innovativo artificio della conca di navigazione nel 1923, costituisce senza dubbio il canto del cigno di una plurisecolare territorialità, soccombente rispetto alla velocità dei flussi ferroviari e alla versatilità di quelli stradali.

3.1 Il declino ottocentesco
Già considerando l’itinerario fluviale lungo la Brenta Nova, in una memoria manoscritta del 1821 dell’ingegnere Marco Antonio Sanfermo si sottolinea la difficoltà di mantenere traffici regolari: La straordinaria ampiezza delle sue sezioni lo rende poverissimo d’acque e quindi impossibilitato il passaggio delle barche […] ad eccezione di qualche battello di Chioggia che qualche volta vi transita perché leggerissimo [Sanfermo, 1821, Memoria VI]. Questo è solo un esempio, che dà conto di una situazione di generalizzata decadenza del sistema dei collegamenti fluviali durante la prima metà del XIX secolo, dovuta in gran parte al difficile momento politico e all’inefficienza di regolari interventi di manutenzione e ripristino delle arginature e dei manufatti, danneggiati da frequenti eventi di piene rovinose e di esondazioni [Miliani, 1939]. Eppure una maggiore attenzione ai collegamenti fluviali avrebbe dovuto costituire una inderogabile precedenza poiché in buona parte della bassa pianura veneta la situazione della viabilità terrestre presentava palesi condizioni di precarietà, specialmente a seguito di prolungate precipitazioni tra autunno e inverno, come ben indicato in un testo manoscritto di inizi Ottocento riferito alla bassa pianura padovana, in cui le strade: sono così guastate e disastrose che nella stagione del verno non sono assolutamente praticabili, e praticar non si possono senza rischio [B.C.P., fasc. XXV].
Considerando ora la rete di navigazione facente capo al porto di Battaglia torna utile la consultazione di un altro manoscritto di inizio ’800, redatto dal Capitano del Genio Pietro Antonio Leter e dedicato alla Descrizione dei fiumi navigabili della Provincia Padovana. Nel testo la rete delle vie navigabili che solca il territorio di Battaglia appare immutata rispetto ai secoli precedenti. Si sottolinea comunque che la scarsità dei deflussi è il principale ostacolo, come nel caso del canale di Cagnola, la cui navigabilità dipende infatti dalla sufficienza dell’acqua, che oltre all’ordinaria in esso canale, derivante dagli edifizij della Battaglia, ed altri […] si fa discendere coll’apertura dell’Arco di mezzo della Battaglia [Leter, B.C.P. fasc. XXIV]. Leter sottolinea inoltre la necessità di realizzare un sostegno a porte per consentire alle barche di proseguire la navigazione dal canale di Battaglia sul sottostante sistema Vigenzone-Cagnola-Bacchiglione.
Un tema ricorrente tra i trattatisti di inizio ’800 quando affrontano la situazione della rete idrografica padovana, e in particolare quella che irrora la bassa pianura tra Euganei e Adriatico, è la constatazione dell’inefficienza dei corpi ricettori, incapaci non solo di consentire una regolare pratica della navigazione, ma anche, in alcune condizioni, di facilitare il deflusso delle acque scorrenti dagli scoli delle circostanti campagne. Tali vie d’acqua sono infatti ad uno stato ridotte da non poter ricevere gli scoli di più terreni che sono ad esse inclinati: disordine che va ad essere aggiunto alla navigazione in esse perduta e in tempo di piena e di magra, è stentata e precaria nello stadio intermedio. [Coppin, 1818, p. 25].
Su più larga scala, simili problematiche sono rinvenibili lungo l’importante idrovia del Po, specialmente per il traffico ascendente, a causa della “stessa configurazione fisico-idrografica del fiume [che] non era favorevole allo sviluppo della navigazione, resa difficile, al di sopra della foce dell’Oglio, dalla forte pendenza, dalla variabilità dell’alveo e dalla poca profondità dell’acqua in tempo di magra” [Bigatti, 1999, p.7]. Le prospettive di sviluppo della navigazione erano quindi condizionate dall’irregolarità delle portate che rendevano poco efficace l’impiego di natanti con propulsione meccanica, come nel caso dell’Eridano, il primo battello a vapore introdotto nel Po nel 1820 [Sillano, 1989]. La navigazione lungo il Po poté comunque giovarsi, dopo l’apertura del naviglio Pavese nel 1819, di un collegamento diretto con il porto di Milano, anche se le modalità di navigazione continuarono a utilizzare tecniche di propulsioni arcaiche: forza della corrente, remi, vela, traino con animali dalla via alzaia. Dati questi mezzi propulsivi è facile immaginare la lentezza dei trasporti, rendendo in tal modo sempre meno appetibile ai commercianti l’opzione nautica per la pratica dei loro traffici.
Come nel resto d’Europa, anche nel giovane Regno d’Italia si fece sentire la straordinaria concorrenza della ferrovia: si pensi, ad esempio, come a seguito della costruzione della strada ferrata tra Padova e Venezia, inaugurata il 2 dicembre 1842, iniziasse l’inarrestabile declino della navigazione lungo la Riviera del Brenta. Allo stesso modo, anche il canale di Battaglia, dopo che furono realizzati i collegamenti ferroviari tra Padova e Bologna (1866) e tra Monselice e Montagnana (1885), vede attenuarsi l’intensità dei suoi traffici nautici. È anche vero però, che se da un lato la concorrenza della ferrovia è vincente nei confronti degli itinerari interregionali, restano invece ancora vive fino al primo dopoguerra ben distribuite consuetudini verso attività di piccolo cabotaggio. È questo il tema dei “traffici vicinali”, questione di indubbio fascino non solo per i percorsi di ricerca della geografia storica, pur tra rilevanti difficoltà in quanto la rarefatta tradizione documentaria lascia aperti ampi margini di incertezza [Bonino, 1982], ma anche per le più aggiornate strategie di recupero patrimoniale dei beni materiali e immateriali legati alla cultura nautica di terraferma.
Resta comunque plausibile immaginare per l’area veneta una buona continuità delle abitudini nautiche di breve raggio, documentate nei secoli precedenti da numerose ed esaurienti relazioni, a cui spesso si affianca un adeguato rilievo cartografico. La familiarità delle genti rivierasche con la presenza di una via d’acqua, per quanto modesta, è ancora oggi rilevabile lungo gran parte dell’idrografia veneta, e in particolare nel sistema idroviario di cui si sta trattando in questo saggio, dove è facile imbattersi in vecchie banchine d’attracco occultate dal fango e dalla vegetazione infestante, in rustici pontili in legno, in borgate rurali a schiera (fig. 17) o singole dimore contadine con le facciate rivolte al corso d’acqua e ad esso collegate da una breve e stretta scalinata in pietra adagiata sull’argine.

Bovolenta, tipica riviera fluviale “a schiera”, tra i canali Vigenzone e Roncaiette.

Fig. 17 | Bovolenta: tipica riviera fluviale “a schiera”, tra i canali Vigenzone e Roncaiette, purtroppo ancora colpita dalle frequenti esondazioni.

3.2 Il naviglio tradizionale
Per chi ai giorni nostri si cimentasse in un paziente peregrinare lungo gli itinerari sulla sommità degli argini che per centinaia di chilometri delimitano la fitta maglia idrografica fin qui descritta, faticherebbe non poco a trovare qualche traccia di natanti tradizionali, ultimi relitti di una ormai dimenticata distribuzione di manufatti artigianali dalle molteplici tipologie, le cui fisionomie e peculiarità costruttive rispondevano alle esigenze per una sicura e agevole navigazione in determinate condizioni di deflusso, adeguandosi inoltre alla più o meno accentuata profondità dei fondali, alla condizione delle sponde, al variare delle esigenze commerciali. L’antico fulcro nautico di Battaglia, con la presenza suggestiva del suo Museo della Navigazione, è un vantaggioso punto di partenza per occuparsi di imbarcazioni, senza però trascurare utili riferimenti alle tipologie dei paesaggi anfibi, alle morfologie degli alvei, alle condizioni dei venti dominanti.
In generale non è certo semplice il tentativo di restituire gli scenari delle antiche navigazioni e a questo proposito è possibile avvalersi dei rilevanti risultati conseguiti da alcuni ricercatori, anche se i drammatici effetti collaterali di una allargata e acritica adesione al modello del “miracolo economico”, trionfante dalla fine degli anni ’50, ha non solo accelerato la fine della navigazione interna, ma ha inoltre eroso i peculiari elementi immateriali e materiali della secolare territorialità anfibia. Così, ad esempio, Marco Bonino, tra i più attenti studiosi della navigazione tradizionale italiana, già alla fine degli anni ’70 esprimeva un inconsolabile rammarico per non aver intrapreso prima l’inventario delle piccole barche. E infatti è proprio negli anni del boom economico che si è disperso il patrimonio della nautica tradizionale italiana; bastava essersi mossi negli anni ’50 per poter disporre di una panoramica quasi completa: “perciò la ricerca in questo campo si muove ora tra quella etnografica-dialettologica e quella archeologico-navale ed in futuro vi sarà peraltro sempre meno spazio per la ricerca sul campo a causa della scomparsa delle barche tradizionali e dei soggetti che le costruivano e le utilizzavano [Bonino, 1982, p. 9].
Tornando ora a considerare le relazioni nautiche lungo il sistema idrografico all’interno del triangolo Padova, Monselice, Chioggia, è utile rammentare come la notevole prossimità geografica tra scali dell’entroterra e laguna costituisse una facile opportunità per una prolungata e proficua ibridazione tra tecniche costruttive fluviali e lagunari, i cui percorsi ed esiti evolutivi non è certo semplice identificare. Si può comunque affermare con buona sicurezza che la cantieristica lagunare esercitò una forte influenza lungo le principali vie d’acqua della bassa pianura, specialmente per quanto riguarda i natanti di modeste dimensioni. In tale contesto di incertezza, si rivela di qualche utilità il ricorso ad alcune citazioni iconografiche, elaborate a partire dalla fine del XVII secolo e in grado di offrire utili spunti per far luce su questo interessante aspetto della cultura materiale. Di particolare interesse è quanto tramandato dal cosmografo Vincenzo Coronelli che in un capitolo del suo Atlante Veneto intitolato Dè navigli che si usano in tutti li fiumi e mari del mondo, offre una buona descrizione di alcuni esemplari fluvio-lagunari, in cui era facile imbattersi fino alla metà del secolo scorso, come peate e burchielli [Coronelli, 1691]. Altrettanto prodiga di informazioni sul naviglio operante attraverso l’interfaccia bassa pianura-laguna è la ben nota raccolta di incisioni di Gian Francesco Costa dedicata alle Delizie della Brenta [Costa, 1762], in cui gli intenti quasi veristi di ricostruzione della quotidianità rivierasca si affidano a citazioni di numerose tipologie di natanti (fig. 18) facilmente riconducibili a tipologie ancora ben documentate dal prezioso materiale fotografico prodotto a partire da fine ’800 dalle ditte Naya, Filippi e Ongania [Zannier, 1992].

Navigazione fluviale nel fiume Brenta: caorlina da carico nei pressi di Oriago.

Fig. 18 | Dettaglio dalle Delizie della Brenta (Costa, 1762) con caorlina da carico nei pressi di Oriago.

Al di là della presenza di queste suggestive tradizioni iconografiche, una più rassicurante documentazione proviene ancora una volta dalle memorie manoscritte del Sanfermo, il quale stila nel 1821 un’accurata relazione in cui sono riportati i dati tecnici e operativi di tutti i natanti che solcano in quell’epoca l’idrografia veneta [Sanfermo, 1821]. Nel suo testo viene rilevata una cospicua varietà di imbarcazioni, le quali, anche se accomunate da principi costruttivi pressoché identici e rispondenti a esigenze suscitate da ambienti fluviali poco differenziati, palesano interessanti differenze funzionali, dovute soprattutto alla diversa larghezza e profondità dei fiumi e canali frequentati. Per quanto riguarda invece le barche più piccole, utilizzate per traghettare da una sponda all’altra o per brevi spostamenti, Sanfermo le definisce come battelle in assortimento e la loro diffusione è indifferenziata su tutti i fiumi e canali della regione a valle della fascia delle risorgive. Egli precisa inoltre che queste barche non hanno importanza nella navigazione commerciale, ma sono legate più alle esigenze della quotidiana sussistenza di chi le usa: pescatori, trasporto di fieni, biade, animali di bassa corte, legna, relazioni con il vicinato, con i mulini, con i modesti mercati di villaggio [Pergolis, 1989]. Anche in questo caso ci si trova di fronte a tipi di imbarcazioni che si sono mantenute a lungo in uso sulle vie d’acqua della bassa pianura, in pratica fino alla definitiva interruzione della navigazione interna.

3.3 Porti, conche, idrovie: i nuovi paesaggi
Pur all’interno dell’attento e approfondito dibattito circa il rilancio e ammodernamento della navigazione interna italiana, per quanto riguarda la dotazione del naviglio si può constatare una vistosa inerzia tecnologica che connota la tipologia dei natanti, il loro tonnellaggio e la propulsione. Circa quest’ultimo aspetto, la maggior parte delle tradizionali imbarcazioni da carico (burci, gabarre, rascone, comacine etc.) mantengono fino all’immediato secondo dopoguerra la pratica dell’alaggio animale e l’impiego della vela; dalla fine degli anni ’40 si diffonde la loro motorizzazione.
Le vie d’acqua della bassa durante il periodo fascista rientrano in un programma di efficace modernizzazione, adottando le più aggiornate scelte progettuali per l’ampliamento delle conche, per la meccanizzazione delle manovre, con l’uso di strutture metalliche per i ponti girevoli, realizzando il taglio di meandri e la rettifica dei tratti più tortuosi, consolidando le arginature e ampliando le vie alzaie. Tali interventi a favore della navigazione dovevano inoltre coordinarsi con le finalità della bonifica, realizzando in tal senso nuovi botti a sifone e migliorando quelle già esistenti, potenziando infine gli impianti idrovori azionate dall’energia elettrica. Si delineano dunque nuovi paesaggi fluviali, che confermano l’auspicato processo di modernizzazione rurale, ma ciò che colpisce nelle numerose campagne di celebrazione fotografica di questa ben riuscita azione territoriale è che il diffuso aggiornamento strutturale continua a ospitare un naviglio le cui tipologie sono quasi ovunque invariate non solo rispetto al rilievo di Marco Antonio Sanfermo stilato all’inizio del XIX secolo, ma anche nei confronti della tradizione iconica settecentesca elaborata da Gianfrancesco Costa. Ne consegue la curiosa antinomia tra i nuovi manufatti delle conche a riempimento veloce e l’arcaica presenza di burci e trabaccoli a vela, con tanto di batela ausiliaria per il trasbordo delle funi destinate all’alaggio animale. Questa suggestiva convivenza tra la modernità dei tracciati e le antiche abitudini barcare sarà in parte superata non solo con il suaccennato diffondersi della motorizzazione delle barche, ma anche con l’aumento della loro stazza, nonostante che l’antica morfologia degli scafi si mantenga inalterata fino agli ultimi vari avvenuti nei cantieri di terraferma.
Al di là di questa inerzia tecnica che connota la cantieristica tra ’800 e ’900, e che da un punto di vista puramente etnografico costituisce una suggestiva continuità con le modalità di navigazione dei secoli passati, il sistema di relazioni nautiche connesse al preminente asse canale Battaglia, Bacchiglione e porto di Brondolo rientra negli interessi strategici per il conseguimento di una maggiore efficienza territoriale, irrinunciabile requisito per la nuova Italia del primo dopoguerra. Una spinta rilevante in questa direzione proviene dagli scritti economici dell’epoca e in particolare da quanto elaborato nell’ambito dei numerosi comitati locali per la navigazione interna, a loro volta stimolati dall’oggettiva importanza a livello nazionale del nuovo sito portuale e industriale di Marghera. Si elogiano in particolare le rinnovate prospettive del porto Veneziano, da un lato aperto ai commerci globali e dall’altro animato dall’ampio polo produttivo ben connesso a un retroterra pianeggiante, a breve distanza da ripidi rilievi ricchi di acque scroscianti da trasformare in abbondanza di energia elettrica e infine collegato “con molti canali litoranei e vari fiumi, i quali anche quando non sono molto vasti e profondi, si internano per molti chilometri attraverso regioni ricche ed industriose” [Ruggeri, 1922, p. 3].
Per il rilancio del porto di Venezia era dunque necessario ricalibrare e migliorare tutto l’irradiarsi di relazioni per acque interne con Treviso, Monfalcone, Padova e la linea del Po e in questa visione allargata uno dei fulcri del sistema era considerato proprio lo scalo di Battaglia, importante nodo a cui bisognava appoggiarsi per i collegamenti con le basse terre della bonifica integrale, ma soprattutto per raggiungere il Po e i porti di Emilia e Lombardia. Anche per quanto riguarda i percorsi secondari si sottolinea la necessità di proseguire nella manutenzione di fiumi e canali, non tanto per assecondare le fulgide aspettative di moderne e intense produzioni industriali da immettere nei mercati nazionali e d’oltralpe, ma per assicurare la distribuzione di prodotti in un’ottica quasi pre-autarchica, connessi pertanto a una ben distribuita e proficua attività agricola, in un suolo fertile e ricco d’acque: “come le industrie della provincia di Padova sono intimamente legate all’agricoltura, così anche il commercio è soprattutto legato colla sua agricoltura”. Ciò richiede infatti “un intenso movimento commerciale di capitali, concimi, sementi, antiparassitari; importano un intenso movimento commerciale per la vendita dei prodotti” [Milone, 1929, p. 276], trasportando dai territori di bonifica le abbondanti produzioni da trasformare (cereali, bietole, ortaggi, uve).
In tal senso può essere valutato anche il rinnovato interesse per il sito portuale di Padova: “situata nel cuore della Regione veneta e di una plaga ubertosa, dove l’attività agricola è grandemente spinta, centro di importanti industrie, di commerci e di grandi capitali, Padova dovrebbe essere il perno di una ricca rete di canali navigabili, i quali fossero serviti da un comodo porto, provvisto di ampie banchine arredate di materiale moderno e di ampi magazzini per temporaneo deposito di merci” [Cigana, 1923, p. 6]. La valorizzazione fluviale di Padova, più che al rilancio degli itinerari verso Vicenza lungo il Bacchiglione, in direzione del medio Brenta e del modesto scalo di Este, si concretizza con impegnativi lavori strutturali per migliorare l’idrovia verso Marghera e Venezia, sostituendo le antiche conche di età veneziana, incapaci di accogliere i nuovi burci da 300 tonnellate, e avviando una serie di scavi per adeguare la sezione dell’alveo del Naviglio della Brenta.
In questo contesto di fervore progettuale, a cui contribuisce l’uso retorico dell’opera pubblica in quanto elogio del regime, va menzionata la realizzazione della conca di Battaglia, forse il manufatto più rilevante di tutto il sistema idroviario veneto, indispensabile cerniera per consentire il passaggio delle imbarcazioni dal canale di Battaglia alla sottostante idrovia in direzione del Bacchiglione e viceversa (fig. 19). I lavori, iniziati nel 1919, si conclusero nella primavera del 1923 e tale realizzazione, al di là degli effettivi vantaggi apportati ai traffici fluviali, assunse inoltre un tutt’altro che trascurabile valore simbolico, poiché il rapido riempimento della conca e il movimento delle porte azionate da un innovativo meccanismo che utilizza la pressione dell’acqua, evitando il consumo di energia elettrica, evocano l’abilità e l’efficienza nello sfruttamento delle potenzialità locali, ma anche l’adesione al risparmio di tempo, che si traduce nella più vincente delle metafore moderniste: la “velocità”. Quindi il più rapido superamento del dislivello tra i due canali [Cucchini, 1931, p. 172] e i più veloci collegamenti nautici lungo le rotte a sud di Padova sono un evidente contributo agli obiettivi di modernizzazione del Paese, insomma un’occasione da non perdere per Benito Mussolini che inaugura l’opera il 1 giugno 1923, avviando così l’epopea delle grandi artificializzazioni idrauliche nazionali.

La conca di Battaglia, che permetteva la diretta navigazione fluviale fino a Chioggia.

Fig. 19 | La conca di Battaglia è tutt’oggi il nodo cruciale per la promozione del turismo nautico nel Veneto. Sono purtroppo vistosi i problemi per la sua manutenzione.

A seguito della costruzione della conca si conclude l’ampliamento dei bacini a monte e a valle del manufatto, tanto che ciascuno, al termine degli scavi, offre uno specchio d’acqua di circa 10.000 metri quadrati. Altri interventi che perfezionano l’efficiente modernità di quel sito portuale sono la costruzione di due nuovi ponti in cemento armato per la viabilità terrestre che scavalca l’idrovia, la sistemazione delle arginature lungo il canale di Battaglia e l’edificazione della casa di abitazione dei manovratori della conca. Si ha dunque la formazione di un nuovo paesaggio fluviale la cui funzionalità è espressa da specifiche fisionomie che si integrano con la preesistente organizzazione degli spazi rivieraschi. Da quel momento la ricca eredità formale celebrata nelle ben note icone anfibie del canale di Battaglia, dominate dal castello del Cataio e dalle ville Molin, Selvatico, dagli insediamenti a schiera, dai caratteristici ponti in cotto, acquista con la conca un nuovo elemento di identità territoriale, la cui visibilità è accentuata dall’affollarsi, fino agli anni ’60 del Novecento, dei natanti da carico in attesa di utilizzarla. Ancora una volta, come già evidenziato in altre parti di questo studio, si può constatare lo stretto legame tra tecnica ed estetica all’interno degli scenari anfibi d’entroterra, assai evidente, nel caso qui considerato, nel rilevante patrimonio di citazioni fotografiche della conca con al suo interno la pittoresca tipologia del burcio padovano.

Francesco Vallerani

Tra Colli Euganei e Laguna Veneta, copertina.

Francesco Vallerani, Tra Colli Euganei e Laguna Veneta. Dal Museo della Navigazione al turismo sostenibile. Venezia, Regione del Veneto, 2013 – pagine 71-90 (Capitolo 3).