La prima guida dei Colli Euganei

Descrizione della prima vera e propria guida dei Colli Euganei, chiamati per secoli Patavini Montes, pubblicata a Padova nel 1845.

LA PRIMA GUIDA DEI COLLI EUGANEI

PAOLO BALDAN

Verso la metà dell’800
nasce il primo vero e proprio
Baedeker dei nostri Colli,
frutto di una nuova sensibilità
verso un piccolo mondo
di straordinaria suggestività.

Sebbene i Colli Euganei siano sempre stati concepiti fin dalle più antiche testimonianze scritte come il necessario retroterra, l’indispensabile complemento (anche iconografico) della città di Padova, tanto da essere chiamati per secoli Patavini Montes, fino a quasi la metà del secolo scorso non godettero l’onore di una trattazione specifica completamente dedicata a loro. Intendiamoci, fino alla comparsa del volumetto miscellaneo I Colli Euganei – Illustrazioni storico-artistiche, geologiche, igieniche, ecc., Padova, Tip. Crescini, 1845 (questa l’edizione che ho sottomano), al quale collaborarono i migliori ingegni attivi all’epoca in Padova, al nostro acrocoro non erano cento mancate le dovute attenzioni. Queste però anche nei casi più straordinari avevano sempre avuto un carattere settoriale: se ne erano interessati, di volta in volta, viaggiatori più o meno professionisti (da Leandro Alberti ad Arrigo Bocchi), storici locali e no, naturalisti e geologi (tra gli ultimi lo Spallanzani e il Fortis), e soprattutto uomini di Lettere. Poeti e scrittori, dunque, in modo particolare, che nel nuovo gusto impostosi in Europa verso la fine del ‘700 per una natura più incorrotta e primitiva, trovavano potente alimento.
Così se con il Foscolo delle Ultime lettere di Jacopo Ortis il paesaggio euganeo si ritaglia a buon diritto un posto di primo piano nella grande letteratura di ogni tempo, non va trascurata l’importanza che esso assume nell’opera di Niccolò Tommaseo, che gli dedica notevoli pagine fin dal giovanile carmen latino tutto inteso alla descrizione di Torreglia). E sempre in questo torno di tempo, seppure in ambito decisamente più modesto, abbiamo con l’abate Giuseppe Barbieri un vero e proprio poemetto interamente dedicato ai nostri Colli.
Ma, come s’è detto, un lavoro organico che affrontasse in modo esclusivo la complessa realtà del mondo collinare euganeo inteso come un soggetto del tutto autonomo, non s’era mai visto fino alla comparsa del citato volumetto noto anche, nelle varie ristampe, sotto il titolo più sfumato e “romantico” di Ricordi sui Colli Euganei. Potremmo quindi, con una minima forzatura, considerare quest’operetta come la prima “Guida” moderna dedicata ai nostri Colli. Certo, l’odierno turismo di massa, efficientissimo motore di flussi di gente e di denaro, stenterebbe a riconoscere qui una guida turistica obbediente alle sue precise esigenze (ma neppure il raffinato insostituibile vademecum novecentesco del Callegari oggi forse andrebbe bene per l’intelligente complicità che richiede al suo lettore, vista l’attuale tendenza di muovere il turista come una pedina in una scacchiera in cui si recita di continuo la stessa partita).
Eppure se per “guida” intendiamo un referente in grado di introdurci con discrezione nel cuore di un territorio svelatoci non solo nelle sue componenti fisiche ma pure restituito nelle sue stratificate atmosfere spirituali, nei suoi toni affettivo-psicologici, allora non c’è dubbio che qui il termine risulta appropriato. In questa prospettiva può apparire funzionale persino il florilegio di liriche qui accolte e che, con qualche cauta eccezione, non sono gran cosa. Esse tuttavia, pur annegate spesso in melense svenevolezze punteggiate ogni tanto da roboanti scatti d’orgoglio nazionale riconducibili in qualche modo al clima risorgimentale, riannodano quella sottile trama di memorie e di affetti ormai iscritti, per così dire, nel patrimonio genetico euganeo e ribadiscono quei nessi figurativi, quei passaggi mitici e culturali senza i quali i nostri Colli non possederebbero la loro singolarissima identità.

Veduta di Este realizzata da G.B. Cecchini, riprodotta nella "guida" dei Colli Euganei.

Este: veduta di G.B. Cecchini riprodotta nella “guida”, curata da Jacopo Crescini e o Guglielmo Stefani.

Ecco allora aleggiare il gentile fantasma della rapita antica Speronella aggirantesi attorno alle rovine della Rocca di Pendice che la vide prigioniera (sonetto di Giovanni Prati). E, s’intende, quello ben più universalmente celebre della Laura amata dall’“etrusco Vate” (così nel Frammento di Luigi Carrer) cui è anche dedicato il sonetto di Francesco dall’Ongaro. Del resto, a saldare alle vecchie le recenti glorie, provvede anche Jacopo Crescini nel suo lungo omaggio Ad Ugo Foscolo. Ma non è certo la sezione poetica appena sunteggiata a render prezioso e memorabile il volumetto, è non lo è neppure il pezzo d’apertura dedicato a un’Arquà tutta in funzione delle memorie petrarchesche, benché firmato dal Tommaseo, che sa lasciare il suo graffiante segno (come quando, a mo’ di commento a un’appena rilevata contraddizione nel cantore di Laura, così se ne esce: “Oh poeta, tu ch’hai tanto pianto d’amore, hai tu veramente amato mai?” che potrebbe anche costituire il sintetico epitaffio confezionato dal Romanticismo per quel grandissimo professionista della lirica amorosa). Molto più interessanti in realtà, su di un piano concretamente conoscitivo o anche più modestamente informativo, sono altri contributi di carattere monografico e la ricca Appendice di notizie geografiche statistiche e naturali, firmata da Giuseppe Carraro, Marc’Antonio Sanfermo e Vittore Trevisan, che solo il pregiudizio di un’epoca per cui la nobiltà culturale va esclusivamente ai fattori estetici, storici e letterari ha relegato alla fine quando invece essa fornisce dati e notizie da consultare ancora con profitto (e non solo sul piano strettamente documentario).
Quanto ai profili monografici, essi nella loro apparente discontinuità si integrano bene collaborando a un quadro d’insieme, che non è lasciato al caso. Essi cioè individuano dei luoghi strategici o dei punti di forza che finiscono con il saldare attorno al gruppo collinare una trama descrittiva polifunzionale che mentre esalta i primi piani delle località e delle cose indagate, immergendole quando occorra in un continuum storico rivisitato, sa anche catturare lo sfondo e il clima generale. Si veda, a esempio, come Pietro Selvatico nella sua Praglia sappia elegantemente passare per noi in rassegna i tesori artistici dell’abbazia facendoci assistere a un’ipotetica visita guidata in cui, nel tardo Cinquecento, si trovano coinvolti come personaggi protagonisti artisti del calibro di un Paolo Veronese, di uno Zelotti, di un Varotari. E come, con felice piglio narrativo, la scena si allarghi ad orti e a vigneti gioiosamente saccheggiati, fino ad evocare il paesello di Castelnuovo da cui è giunto in visita il grande Caliari.
Se la benedettina Praglia rappresenta, e un po’ riassume, un significativo pezzo di storia euganea sotto un profilo caratterizzato in primo luogo dall’elemento religioso, la obizziana villa del Cataio si offre, nella descrizione che ne fa Antonio Berti, come il più opportuno e complementare pendant di quella: tanto in senso geografico, collocata com’è nell’opposto versante collinare, quanto in termini di riferimenti culturali e tematici.
La villa-castello (che allora conteneva un celebre museo, poi trasferito a Vienna) e il sereno complesso benedettino, non costituiscono infatti solo i due stupendi volti di una stessa gloriosa storia che ha segnato nel modo più profondo e affascinante i nostri Colli, ma ne sintetizzano al meglio la duplice secolare vocazione a farsi ideale ricettacolo per le dolcezze della vita ma anche per le sfide della fede e dello spirito.

Il Cataio, illustrazione G.B. Cecchini riprodotta nella "guida" dei Colli Euganei.

Il “Cataio”. Altro disegno del Cecchini riportato nel libro dai due curatori padovani.

Non sono poi casuali le “schede-capitolo” dedicate a Monselice, a Este e all’area termale aponense (dovute rispettivamente a Antonio dall’Acqua, Giovanni Cittadella e a Andrea Cittadella-Vigodarzere). Chiaro che esse rappresentano l’interfaccia urbana, il nodo connettivo e di mediazione culturale tra la città capoluogo, la vasta attorniante campagna e l’autentico sistema montuoso che vi si specchia come nel proprio lato gentile, nel proprio serbatoio di ragioni civili e sociali (e, nel caso di Abano, nel proprio passato di sacralità taumaturgica). Persino la puntata alle due Carrare di Teodoro Zacco, si giustifica in una visione d’insieme, perché altro essa non significa che un colto pellegrinaggio alla culla di quei Principi che diedero una così forte impronta patavina a un territorio prima sempre dilaniato e conteso tra vari agguerriti pretendenti: non a caso il Petrarca aveva scelto l’oasi di Arquà nella pace dei luoghi assicurata da Francesco il Vecchio.
A Guglielmo Stefani, cui si affianca un modesto contributo di Carlo Leoni su Teolo e Rocca Pendice, la più spicciativa incombenza (ma con esiti felici, nel sodo quanto gradevole realismo dimostrato) di riferire, in rapida sintesi, sul vero e proprio cuore del mondo euganeo restituito come “a volo d’uccello”. Un volo d’uccello che getta rade ma mai distratte occhiate anche sul piccolo mondo umano che vive raccolto e come incastonato in un tale paesaggio: si tratti di dar conto degli scalpellini di Montemerlo o del vivace cosmopolita, nonché gaudente, sodalizio cui danno vita gli ospiti dei Bagni di Battaglia.
Il libro, uscito con le deliziose litografie paesaggistiche del Cecchini come strenna del “Giornale Euganeo” (sulla scia della più famosa Guida di Padova e della sua provincia pubblicata nel 1842), segna la via verso una sempre maggiore presa di coscienza dell’identità è del valore autonomo di una precisa nostra realtà territoriale.

Copertina della rivista: Padova e il suo territorio, n. 52.

Questo articolo è stato pubblicato nel numero 52 (dicembre 1994) della Rivista di storia arte e cultura PADOVA e il suo territorio, alle pagine 48-49.

La foto di copertina è di Paolo Marin.