Il mulino euganeo attraverso i secoli

A colpire la fantasia di ragazzi e adulti alla vista del mulino, erano il gorgo dell’acqua e la grande fossa ove la ruota s’immergeva dopo aver svuotato le coppelle. La memoria degli anziani e alcuni brani letterari lo stanno a ricordare. “Il mulino c’era, a poco più di un chilometro dal paese, un vecchio mulino ad acqua, con una gigantesca ruota nera di legno che lo azionava girando in una strettissima gola da incubo, muschiosa e gocciolante, percossa da una violenta cascata proveniente da un laghetto soprastante, piccolo ma profondo, che gli adulti ci descrivevano per tenerci lontani – come il posto più sicuro per morire annegati e poi fatti a pezzi dalla ruota” 40. Le dimensioni della ruota, in particolare, che di norma superava i tre metri di diametro, imponeva l’escavo a ridosso del mulino di un’apposita fossa, oppure, nelle condizioni migliori, di un pronunciato salto tra il pendio a monte e la vasca di raccolta a valle.

Profonde fosse erano ad esempio a Valnogaredo, nel mulino di via Pilastri Rossi – descritto sopra da Adriano Rota – , a Galzignano in Cengolina, a Faedo lungo via Molini, a Teolo alla Molinarella, a Zovon nel palmento dei Contarini. A sfruttare invece il salto d’acqua, in alcuni casi superiore anche a quattro metri d’altezza, erano l’impianto di Valle San Giorgio, ove la ruota tuttora s’annida nella roccia tagliata in verticale; a Rovolon, per il ricordo che ci è rimasto; a Torreglia, ove le pur mutate condizioni dell’odierno fabbricato sono comunque leggibili dalle foto d’epoca; e infine ad Abano, dove l’alto condotto delle acque reflue arrivava quasi all’altezza del tetto del mulino.

Torreglia, 1918. La famiglia del mugnaio in posa davanti al mulino.

Torreglia, 1918. La famiglia del mugnaio (riconoscibile dalla veste bianca impolverata di farina) in posa davanti al mulino di Torreglia. Il doccione in basso sembra alimentare una piccola ruota a coppedello, verosimilmente collegata ad una mola da affilare.

Foto: raccolta Claudio Grandis.

Tutti gli impianti esistenti nell’area euganea presentano fabbricati a due piani. Non vi è una precisa ragione che possa giustificare questa scelta, se non la concreta e salutare necessità di collocare le camere da letto al primo piano, sopra un pavimento di legno capace di assicurare un minimo di isolamento dalla diffusa umidità. Al piano terra, invece, oltre alle macine e ai locali sopra ricordati, trovavano sempre spazio la cucina (fulcro storico della casa veneta, con funzioni di soggiorno, sala da pranzo, tinello e quant’altro l’architettura d’interni della campagna ha proposto nei secoli) e la contigua caneva (cantina) per la conservazione delle derrate alimentari, esclusi i cereali che riposti in capienti madie (casson da biava) venivano sistemati nell’angolo più asciutto della casa. Superfluo ricordare che la madia del mugnaio era sempre rifornita, come ricorda un vecchio proverbio veneto: L’ultimo che more da fame, xe el munaro (l’ultimo a morir di fame è il mugnaio), seguito da un altro che ben sintetizza la condizione della famiglia del mugnaio:

L’omo senza muger, el can del becher,
el gato del cogo, le galine del muliner
e le mare de le balarine,
xe bestie che no ghe manca mai gnente.

(l’uomo senza moglie, il cane del macellaio, il gatto del cuoco, le galline del mugnaio e le mamme delle ballerine – quelle celebrate ad esempio da Giacomo Casanova nella sua Histoire de ma vie – sono animali ai quali non manca mai nulla).

Nell’area euganea raramente troviamo locali riservati al deposito di consistenti quantità di grano o di mais. Il lavoro del mugnaio si esauriva nell’arco della giornata, e nessuno disponeva d’ingenti quantitativi di cereali capaci di riempire le stanze del mulino; i palmenti dei Colli soddisfavano quasi esclusivamente le richieste del momento, la necessità estemporanea della clientela insediata nell’area. Del resto la deperibilità della farina ha sempre consigliato una macinazione limitata dei cereali: frumento, mais, sorgo, segale si conservavano infatti molto più a lungo negli asciutti granai, ove periodicamente si provvedeva ad arieggiarli spalandone i chicchi da un angolo all’altro, particolarmente quando l’inverno esauriva i suoi freddi.

I mulini impegnati nella trasformazione di grosse quantità di farina, destinate ai mercati dei centri più popolati, erano di solito quelli più importanti dei fiumi maggiori, in grado sia di assicurare un rendimento continuo, sia un immediato imbarco sui natanti diretti agli approdi cittadini. Ruolo coperto dai palmenti del canale Battaglia, di Este e anche del vicino Albettone, nel territorio vicentino, come ricordano ad esempio i testimoni di Vo’ nel 1594 al giudice che li interroga: “Le burchielle vanno a’ masenar al Betton lontano due miglia più in su, che se ghe fosse questo molino – di Vo’ – resteriano a’ masenare per maggior comodità et mancho faticha” 41.

La vita quotidiana al mulino euganeo.
La figura del mugnaio

Il mugnaio ricurvo sotto il sacco posato sulle spalle, andante sulla strada dell’inferno, dipinto da Giotto nel 1305 nel famoso affresco del Giudizio Universale alla cappella Scrovegni, la dice lunga sulla considerazione che la categoria godeva nel tardo Medioevo. Considerazione che nel singolare linguaggio proverbiale della quotidiana esistenza può essere riassunto nella feroce espressione: Se va in paradiso i munari, ghe va anche le mole.

Padova, nella Cappella degli Scrovegni. Il mugnaio raffigurato da Giotto nel Giudizio Universale.

Padova, Cappella degli Scrovegni. Giotto: giudizio universale (1305). La pessima nomea del mugnaio, riconoscibile nell’affresco per la veste, il copricapo bianco e il sacco sulle spalle, doveva essere diffusa e proverbiale se Giotto di Bondone (1267-1337) decise di inserirne l’immagine tra i dannati destinati all’Inferno.

Se oggi può apparire una figura sbiadita e quasi scomparsa dal panorama professionale, fino ad un passato recente il mugnaio ha rappresentato l’immagine dell’artigiano imprenditore furbo, scaltro e spregiudicato, pronto a trarre profitto anche dalle classi sociali più misere e sfruttate, bisognose della sua opera. Non a caso nel linguaggio proverbiale del contadino ritroviamo l’espressione: Chi cambia muliner, cambia ladro, raccolta anche nella diversa versione di: Se cambia molin, ma no el muliner, quasi a sancire l’impossibilità di trovare un onesto mugnaio capace di riscuotere solo il lecito dovuto sì da sfatare un altro singolare proverbio veneto: El muliner da la bianca farina, co i oci el la varda e co le man el la rampina (il mugnaio della farina bianca, con gli occhi la guarda e con le mani la rapina, la ruba).

Quali siano state le ragioni per guadagnare una simile reputazione è difficile stabilirlo; tuttavia il maneggio di un prezioso bene alimentare, l’abilità nel saper trasformare il duro chicco di grano in soffice farina, il lavoro con una macchina mossa dalla forza della natura, lo hanno reso di certo un personaggio alquanto singolare. È pur vero che l’imbroglio, l’alterazione della farina, la frode alimentare, sono stati fenomeni ripetuti, lamentati ma non stroncati in secoli ove il capillare controllo amministrativo e sanitario lasciavano spesso a desiderare 42. L’interesse verso i mulini da parte dell’autorità governativa era del resto più di natura fiscale che sanitaria, tanto che le condanne per alterazioni furono riassunte già nel corso del Duecento in alcune rubriche degli Statuti Padovani – il codice civile che per quasi sei secoli regolò la vita della città e del territorio padovano – ma non vennero più aggravate sotto il profilo sanitario se è vero che di fronte al giudice finirono più frequentemente insolventi debitori di dazi e gravezze 43.

A differenza del contadino che divideva il proprio sudore, la propria fatica con i membri del nucleo familiare, con i collaboratori fissi e con gli stagionali aiutanti del villaggio, creando con loro un continuo rapporto di solidarietà, di scambio, di informazione, il mugnaio solitamente rimaneva isolato nella sua attività, forte dell’esperienza maturata nel tirocinio giovanile vissuto a contatto con genitori occupati nella medesima professione, oppure a servizio di altri mugnai bisognosi di collaborazione. Le stagioni delle messi, delle vendemmie calamitanti nugoli di contadini non appartenevano alla cultura del mugnaio. Al massimo egli aveva vicino uno o, più raramente, due collaboratori, spesso impiegati per i lavori più pesanti, come l’asinario, incaricato di trasportare dal mulino alle abitazioni grano e farina, e il burattin o il crivellaro, impiegati nel burattare la farina per liberarla dalla crusca. Molti di più, invece, erano i familiari che condividevano le fatiche e che partecipavano direttamente alla gestione del mulino, occupati in mansioni più semplici, nelle opere di minor impegno tecnico ed organizzativo. Gli esempi in questo senso non sono espressamente desumibili dalla documentazione diretta dei contratti, delle stime, dei patti, bensì dalle controversie giudiziarie e dalle suppliche inviate da vedove e orfani alle autorità locali e centrali 44. Un caso riscontrato al mulino Orsato di Zovon è in proposito significativo. Nel 1594 muore prematuramente il mugnaio Andrea Zuccato e il proprietario dell’impianto, Sertorio Orsato, verificato che la vedova, il genero Bastian Minello e la moglie di questi Isabella, nonché le figlie minorenni del defunto mugnaio non sono interessati a continuare la gestione dell’impianto e che anzi questo continua a deteriorarsi, lo affida a mastro Paulo Inglese, l’abile professionista nel far edifitii, pestrini da oglio, mollini de tutto ponto e ai suoi figli, già incontrato in pagine precedenti. Cinque anni dopo, visto il restauro della casa, delle condotte, delle muraglie e la sistemazione dell’area, il padre di Bastian Minello, Natale, decide di muovere causa all’Orsato in nome e per conto della vedova Zuccato, del figlio, della nuora e delle sorelle minorenni di questa, additando come ragione il mancato rispetto dei diritti livellari che la legge riconosceva ai familiari del defunto mugnaio. Dopo quasi dieci anni di udienze e deposizioni di testimoni, ricorsi e appelli nel 1615 la controversia si concluse a favore del Minello, che potè così ritornare in possesso dell’originario mulino di Zovon 45.

Attorno al mulino solitamente ruotava il piccolo cosmo paesano, si trattasse di poche case sparpagliate, di un intero villaggio o di un grosso borgo rurale. I clienti potevano essere nel contempo contadini, piccoli proprietari, ricchi latifondisti. Difficilmente il mugnaio dirigeva per molti anni uno stesso impianto se non ne era proprietario. La vita anagrafica dei mugnai padovani in molti casi sembra un itinerario a tappe, dove la sosta di tre, cinque o più anni coincide con la gestione di un mulino, e quella successiva con l’affitto di un altro analogo impianto. La mobilità professionale del mugnaio è indubbiamente un aspetto non secondario e spesso ampiamente documentato 46. Il mugnaio, in ultima analisi, rimase un artigiano solitario, padrone dell’energia idraulica, servo degli umori dell’acqua e dei proprietari degli impianti, in lotta quotidiana col tempo, le stagioni, le magre e le piene dei calti e dei rii, la siccità dei gorghi. Al lunatico mutar del tempo ben si può richiamare il cantilenante proverbio tagliato su misura dei mulini a coppedello:

Co el molin xe senz’aqua, me toca bever aqua
Co l’aqua fa andar el molin, bevo del bon vino

Il risentimento nei suoi confronti, tuttavia, è una condizione che si riscontra anche nei riguardi di altre figure notoriamente attive nell’ambito del commercio alimentare, come i fornai, i casolini, i macellai, i fruttivendoli. Chi su questi commerci, su questi lavori vive e si mantiene è da sempre visto con sospetto, soprattutto dalla clientela impossibilitata a rinunciare all’acquisto degli alimenti, insostituibili generi di prima necessità.

Nella storia anche del nostro territorio euganeo il mugnaio è dunque figura ben diversa dal contadino, pur vivendo anch’egli dei prodotti agricoli, visto che sa dominare un meccanismo infernale animato dall’acqua, cioè dall’elemento naturale solitamente ritenuto indomabile. Diversamente il contadino si adatta alla natura, si adegua alle stagioni, agli umori dell’atmosfera, all’imprevedibilità della natura e per proteggersi ricorre alle preghiere, alle rogazioni, alle suppliche, all’osservanza zelante dei precetti religiosi, unica difesa contro l’imprevedibile mutar del tempo. La sua è una vita cadenzata dalle consuetudini agrarie, che inizia all’alba e termina al tramonto. Il mugnaio invece sfrutta l’acqua, la incanala, la disciplina e ne ottiene energia da cui ricava ricchezza e agiatezza, ne regola il funzionamento. Egli macina notte e dì, la ruota della farina gira e non osserva l’orologio; al buio è il campanello della tramoggia a risvegliarne l’assonnata attenzione. Il contadino, ancorato alle consuetudini immutabili delle stagioni, alle tradizioni colturali, agli obblighi contrattuali, è incapace di alterare il corso della natura; ai suoi occhi pertanto il mugnaio appare più il figlio del diavolo che dell’umana natura: da qui la proverbiale e antica diffidenza.

L’immagine negativa del resto si ritrova anche nelle fiabe, nei racconti fantastici, manifestazioni letterarie in cui i personaggi incarnano valori, aspirazioni, sofferenze, gioie recondite dell’uomo. Il mugnaio non a caso impersonifica la scaltrezza, più malefica che benefica, e il suo mulino la ricchezza o quantomeno il luogo dove essa è nascosta. La storia del Gatto con gli stivali può essere un esempio, così come una favola, raccolta da Italo Calvino nell’entroterra genovese, dove il mugnaio, una volpe che parlava, è colui che rivela il vero volto della misteriosa Bargaglina ricercata dal protagonista per guarire da un maleficio 47.

A quali secoli, a quale epoca risalgano le identità proverbiali del mugnaio non è possibile stabilirlo. La tradizione orale difficilmente ha una data di nascita, anche se la coscienza collettiva, l’acquisizione di nuove mentalità, l’espansione demografica e la crescita economica sono da considerarsi i veicoli privilegiati su cui è viaggiata la reputazione del mugnaio. Come ho ricordato in apertura di paragrafo è certo che già nel Duecento il mugnaio impersonava, non solo idealmente, il peccatore, l’imbroglione, il furfante che se l’aveva fatta franca nella vita non poteva però sottrarsi con la morte alla giustizia divina, rappresentata nell’immaginario collettivo dall’inferno e dalla condanna eterna.

A giudizio di alcuni studiosi la destinazione ultima riservata alla corporazione nasceva anche “dalla presenza massiccia dei mugnai nelle sette ereticali” 48. Una trasgressione all’ortodossia religiosa e statuale che si manifesterà molti secoli più tardi nell’adesione ai moti rivoluzionari del Risorgimento. A Padova, a capo della rivolta popolare del 1848 sarà il mugnaio Giovanni Zoia. A Este i condannati a morte per le agitazioni antiaustriache saranno in buona parte i locali mugnai della Restara 49. La nota vicenda del friulano Domenico Scandella, detto Menochio, finito sul rogo nel 1599 perché giudicato eretico dall’Inquisizione, resta singolare di un atteggiamento mentale e comportamentale 50. E quanto meno strana rimane l’appartenenza del mugnaio di paese alla triade dei fabbriceri, un istituto creato nel 1807 ed estinto nel 1936 col compito di amministrare oculatamente le risorse economico – finanziarie della parrocchia veneta 51. L’annotazione di Carlo Ginzburg di un’attiva partecipazione dei mugnai alla gestione materiale della chiesa trova infatti Fedele riscontro per la parrocchia di San Bartolomeo di Tencarola. Nel corso dell’Ottocento, e per i primi anni del Novecento, uno dei membri della fabbriceria è quasi sempre il mugnaio che gestisce l’impianto sul Bacchiglione. E pensare che per diventare fabbriceri occorreva esser “fra le più probe e onorate persone delle rispettive parrocchie”.

Giudizi morali s’intrecciano con interessi personali in una feroce descrizione del mugnaio inserita dal ferrarese Tommaso Garzoni nella sua Piazza universale di tutte le professioni del mondo, apparsa a Venezia nel 1577 e più volte ristampata. Ripercorrendo la mi1lenaria arte del macinare e riconoscendone una sorta di divina origine, il religioso di Bagnacavallo si sofferma sul mugnaio sempre ricoperto dalla macchia bianca di farina che appena scossa dalla berretta e dal saio vola via. Poca è la dignità – egli scrive – e altrettanto scarse le ragioni per un’esaltazione della professione, animata dalla pessima abitudine di copelare, cioè di estrarre la farina dal sacco utilizzando il coppo.

Il coppo del mugnaio, recipiente in rame usato per raccogliere la farina.

Il coppo del mugnaio, attrezzo in rame impiegato per raccogliere la farina dal mezale e per estrarre la malenda, cioè la quantità di farina dovuta al mugnaio a compenso della macinazione quando il lavoro non era retribuito in denaro. Dal coppo deriva copelare, sinonimo, a giudizio della clientela, di rubare.

Foto: Claudio Grandis.

Anche il Garzoni vede il diavolo all’interno del mulino tanto da ridurre un’arte, esternamente candida, in “lorda, et sporca per conto di vitii”, e tale “da dirne più presto mal che bene; et raccontar più presto le furfanterie, che narrar gli honori”. Agli occhi della popolazione il mugnaio diventa così un cornuto poiché “lasciata la bella moglie a casa in preda di barcaruoli, et asinari, tutto il dì si rompe il capo coi scarpellini, per trovare una mola”. E ancora perché appaiono sempre in giro “con gli asini e i muli a caricar frumento per portare al molino, o a riportar la farina a casa”. A badare a tante incombenze finiscono “all’hospedale, rimanendo falliti marci il più delle volte, come si vede; perché hora gioccia il tetto del molino, hora il canale fa danno, hora l’acqua non corre, hora s’è rotta la chiusa, hora l’acqua se gli mena a seconda, hora si spezza una ruota, hora qualche barca gli urta dentro, e gli affonda, hora marciscono i pali, hora va in malhora una botta, et hora s’intende una ruina, hora un’altra”. Le disgrazie comunque non finiscono qui. Ad avviso del Garzoni i mugnai diventano “sordi, et balordi come asini, et sempre hanno un certo tintinnamento nelle orecchie, che da per tutto dove vanno, portano la impressione de’ lor molini di dentro”; la causa è nello “strepito, et rumore, che tutta la notte, e il giorno fanno i molini”.

L’ambiente di lavoro è inoltre micidiale al mugnaio. Il suono del campanello della tramoggia, ad esempio fa andar di traverso il boccone in bocca e lo priva costantemente d’ogni quiete e riposo dell’animo e del corpo. L’umidità, l’aria infetta, il gorgoglio continuo dell’acqua, continua ancora il prete di Bagnacavallo, creano al mugnaio mille dolori di capo tanto da condurlo alla morte. Anche la stagione incide sulla condizione di vita tant’è che d’inverno i piedi del povero mugnaio sono “molli per il fango brutto et per il piscio di asino et di mulo”, d’estate sono frastornati dal gracchiare petulante delle rane pantanose.

Il quadro funereo si completa con la descrizione fisica: il mugnaio ha il fiato marcio, i piedi pieni di sudore, le ascelle puzzolenti come la “carne di becco, o come l’arrenge, e le botarghe, il volto carico di sudiciume, il naso che cola giù da ogni parte, il vestito imbrattato di polvere et farina, la ciera da Hebreo Levantino”. E la descrizione continua sottolinenado come egli non abbia alcun rispetto per la clientela che si reca al mulino, disprezzo per coloro che cambiano mulino, disinteresse per il rispetto del precetto festivo. La lunga e spietata descrizione si conclude con una punta di soddisfazione allorquando l’autore ricorda le condanne inflitte per l’illecito operato dato “che essendo essi ladri molte volte, et mariuoli, molte volte ancora s’ode sonar la renga per loro, et si vedono come sacchi col collo appesi in piazza, portando de’ robbamenti loro convenevole castigo, et giustissime mercede” 52.

A dar credito totale alle parole del teologo e scrittore ferrarese, animato da un’intensa curiosità e da una feroce animosità, come traspare in altre opere dedicate alla società del suo tempo, saremmo costretti a pensare tutto il male possibile del mugnaio. Le fonti documentarie tuttavia se da un lato confermano accuse e comportamenti disonesti dall’altro ci propongono profili umani ben più aderenti ad una realtà quotidiana al limite della sopravvivenza, dove spesso la scaltrezza del mugnaio non era finalizzata all’arricchimento ma piuttosto al soddisfacimento dei bisogni più elementari. La continua sostituzione di mugnai negli impianti alla scadenza triennale dei contratti, frequente anche in tutta l’area euganea seppur con alcune debite eccezioni, tradisce la precarietà de lavoro e soprattutto della sua permanenza.

Abbiamo già incontrato un mugnaio che oltre a macinare trafficava nelle riparazioni. Esempi del genere se ne possono trovare anche in altri luoghi dei Colli Euganei, come per esempio ad Abano dove la famiglia Bindella assieme al pal mento della Fontega gestì a lungo nel corso del secolo XVI l’osteria presso i bagni termali del Montirone 53. Più frequente e diffusa era invece la conduzione di palmenti con la contemporanea coltura di terreni agricoli, non di rado costituiti in parte da appezzamenti boschivi e vignati sicchè il mugnaio spesso rivestiva i panni del contadino. Diverse testimonianze di secoli XVI e XVII ci presentano attorno al mulino pertinenze coltivabili di discreta estensione mediamente di cinque e più campi; a volte non mancano anche manufatti singolari come il forno per la cottura del pane. A scorrere le carte degli ultimi secoli incontriamo nell’anagrafe dei mugnai collinari diversi cognomi ancor oggi diffusi nell’intero comprensorio. A Rovolon sono i Gomiero a dominare scena, così come i Sanguin e i Girardi lo sono a Torreglia, i Mion a Valnogaredo, i Fasolo a Teolo, i Furlan a Faedo e i Bertin a Valsanzibio. Dal canto suo l’interminabile ramificazione dei Sinigaglia è particolarmente presente a Fontanafredda, mentre generazioni di Saorin risiedono Castelnuovo, accanto ai Martini che s’alternano tra Rovolon e Teolo. In quest’ultima località poi non mancano i Benatto, quando all’estremità opposta dei Colli, Valle San Giorgio, alla lunga stirpe d Gattolin subentrano nell’ultimo secolo attività i mugnai Segato, analogamente quanto succede a Rovolon con l’avvento dei Miotto nell’omonimo mulino, senza infine dimenticare la secolare permanenza Zuccato sotto il picco di Rocca Pendice, margini “appresso” Teolo.

Sabino Segato, l'ultimo mugnaio di Valle San Giorgio.

Valle San Giorgio. Sabino Segato, l’ultimo mugnaio di Valle.

Foto tratta per g.c. dal volume di F. Selmin, Storie di Baone.

Avara d’informazioni sulla vita quotidiana, sulla realtà spicciola condotta al mulino, resta comunque la gran parte della documentazione raccolta, fondata quasi esclusivamente da atti patrimoniali. Pure le stime si contano sulle dita di una mano, e la segnalazione d’inventari non reperibili rende ancor più difficoltosa valutazione sugli attrezzi da lavoro e sul valore degli impianti. La preziosa stima del 1557, compiuta per il mulino galleggiante di Vo’ serve poco all’economia di questa illustrazione, e le informazioni di un certo interesse riconducibili anche ai palmenti a coppedello, sono date dalla presenza di due cassoni per tenere la biava (i cereali) dai martelli da batere li molini del peso di 22 libbre impiegati nella rabbrigliatura delle macine; dalla mastella da “butar suso la biava”; dal chopo dele moladure (coppo) per raccogliere il macinato; dalla liviera, la leva usata per sollevare la mola; dai tre crivelli per separare la crusca dalla farina; dal lume per illuminare i locali; dalla fogara per scaldare l’ambiente nelle fredde giornate 54. Alcuni “crivelli et una cassa da metter biava” troviamo al mulino Orsato di Zovon nel 1590, allorquando vengono ceduti a Paolo Inglese 55. A Teolo, alla Zenzola, nel 1727 Crescente Martini molinaro da Boccon nel redigere la stima dell’impianto al termine elenca una “stafetin da sacchi”, verosimilmente una staffa per pesare o sollevare i sacchi di cereale 56. Ma per ritrovare una dettagliata descrizione degli strumenti del mugnaio, dobbiamo portarci a Rovolon, ove nel 1834 venne redatto un elenco degli “attrezzi inservienti al molino” comprendenti anche pezzi di ricambio dell’impianto, con il relativo valore in lire austriache che val la pena riproporre 57.

Attrezzi inservienti al molino
N. 2. Mastelle di abete con due fascie ferro valutate £. 3
N. 2. Crivelli vecchi £. 3
N. 2. Mazze di ferro del peso di libbre 20 venti £. 10,80
N. 12. Dodici martelli di ferro acciaiato del peso di libbre 34 trentaq. £. 30,60
N. 1. Piccarello di acciaio del peso di libbre 1.1/4 £. 1,12
N. 2. Aseggi nuovi del peso di libbre venti 20 £. 10,80
N. 8. Brazzole otto vecchie del peso di libbre 25 venticinque £. 10,50
N. 1. Uno scarpello ed una cavea del peso di libbre 2 £. 1,15
N. 2. Due liviere di ferro del peso di libbre 26, ventisei £. 12,22
N. 1. Una fune canape del peso di libre 11, undeci £. 3
N. 2. Due quartaroli di rame, uno in ordine con fascia ferro,
il tutto del peso di libbre 2.
£. 3
N. 1. Una sega £. 1,20
N. 1.  Un palo di ferro vecchio del peso di libbre trenta £. 14,18
N. 3. Tre vecchi cerchi ferro del peso di libbre 6 sei £. 2,52
N. 1. Ferale con crosara di ferro £. 1
N. 2. Cerchi vecchi del peso di libbre venticinque 25 £. 10,50
N. 1. Una quarta di legno bollata con cerchio ferro £. 1,14
N. 1. Una gorna o doccia nuova di larice lunga metri 1,45 £. 2,30
N. 12. Crosare di ruota nuove di rovere lunghe metri 4,10 £. 36
N. 2. Crosare di rovere vecchie £. 4
N. 1. Perfilo di rovere £. 4
N. 2. Cavalletti di rovere £. 2
N. 15. Fondi di ruota di rovere nuovi £. 30
N. 1. Simile di pioppa £. 1
N. 1. Colonna di rovere vecchia £. 6
Importo degli attrezzi,
austriache
£. 205,03

Per concludere le brevi note sulla figura del mugnaio è doveroso ricordare che ai clienti, ai poveri, ai tanti probabili visitatori che quotidianamente facevano capolino alla porta del mulino s’aggiungevano i dazieri, gli ufficiali del fisco incaricati di riscuotere gli odiati dazi previsti per la macina del cereale, che dal tardo Medioevo continuarono, pur con qualche interruzione, ad essere applicati fino alla fine del secolo scorso 58.

Un cliente abusivo particolarmente fedele

Accanto ai poveri questuanti, che al mulino facevano tappa obbligata speranzosi di ricevere almeno una manciata di farina, al primo posto dell’abusiva clientela, che senza permesso visitava sovente i depositi del mulino magari per albergarvi durante i lunghi periodi invernali, il mugnaio ha sempre dovuto includere i topi, gli insaziabili roditori che tra le fessure dei muri, le sfeze dei serramenti e le commessure dei tetti sapevano ricavarsi un autonomo e occulto accesso al pingue alloggio. Sin dall’origine del mulino idraulico, il trinomio acqua, terra, grano ha costituito il migliore habitat per i sorci di tutte le taglie: da quelle mini delle morajoe a quelle medie del topo campagnolo, per finire con le maxi della classica pantegana.

Per potersi difendere il mugnaio ha usato tutta la sua proverbiale astuzia, ma spesso ha dovuto soccombere, nonostante l’ausilio dei preziosi felini, presenza obbligata per il mulino di piano e di collina. Troppi i buchi da controllare costantemente, tanto più se si pensa alla ruota idraulica, costretta a trasmettere il movimento ricevuto dall’esterno alle macine del palmento interno, passando per il foro ricavato nel muro perimetrale del fabbricato. E se poteva risultare inaccessibile il varco dell’albero, erano porte e finestre ad essere assalite, nonostante le precauzioni, le attenzioni e le protezioni poste dal mugnaio. Un varco, un accesso poco controllato, il topo sapeva sempre trovarlo: se cronica era la fame degli animali, altrettanto ricca era la grazia dei grani qui ammassati e ancor più vulnerabile era l’edificio che li conteneva.

Per certi versi la struttura stessa dei mulini favoriva l’accesso dei roditori all’interno dei locali. Nel caso degli impianti natanti, ad esempio, il legno seppur impregnato di pece e calafatato esternamente, era un ottimo banco di prova per gli aguzzi incisivi degli animali, così come altrettanto agevoli risultavano ai rapidi sorci le passerelle, i cavi e i numerosi tavolati gettati tra riva e mulino per consentire l’accesso a mugnai e clienti.

Annidati negli angoli più occulti del mulino, i topi spesso dovevano controllare i movimenti del mugnaio, soprattutto quando le macine giravano ininterrottamente giorno e notte e il padrone vegliava attentamente la tramoggia affinchè non rimanesse vuota. In quelle circostanze la frenetica attività permetteva di localizzare i voraci roditori e di rilevarne i disastri sulle maglie dei sacchi. Gli accorgimenti rimediati dal mugnaio costituiscono per certi versi l’espressione più visibile della sua abilità e certamente nel mulino la millenaria sfida tra uomini e topi raggiunse la punta massima del confronto.

Claudio Grandis

Bibliografia, abbreviazioni.

Note

40 ROTA, p. 121-122.
41 A.S.P. Praglia, vol. 156, c. 227.
42 MASSARI, p. 83.
43 GLORIA Statuti, libro III, poste 829-833.I, p. 275-276.
44 A.S.P. Miscellanea Q, b. 12, fasc. num. 251.
45 Vedi nota 33.
46 Per un confronto con l’area friulana del Tre-Quattrocento, ZACCHIGNA, p. 74-83. Considerazioni anche in GINZBURG, p.137-138.
47 Fiabe italiane, vol. I, p. 28-30.
48 GINZBURG, p. 137.
49 LEONI, p. 197, n. 59. La segnalazione per Este è di Francesco Selmin, che qui ringrazio.
50 GINZBURG, e ora anche Domenico Scandella.
51 SAVALDI, p. 80-89.
52 GARZONI, p. 552-554.
53 A.S.P. S. Daniele, b. 15 e 16.
54 AN. 2982, c. 247-248.
55 A.S.P. Orsato, t. 72 (IV) nuovo 129, c. 9v.
56 AN. 7021, c. 26.
57 Devo al sig. Facchini particolare gratitudine per avermi messo a disposizione il prezioso documento e per la gentilezza riservatami in occasione dei ripetuti sopralluoghi a Rovolon.
58 Ho omesso una specifica indagine sull’entità delle gravezze applicate nel corso dei secoli, in considerazione anche della mancanza di un ragionato indice del fondo Dazi conservato nell’Archivio di Stato di Padova. Sull’annoso dibattitto acceso attorno alla tassa sul macinato particolarmente ricca e variegata è la bibliografia, esemplata nel catalogo della mostra Pane e potere; a titolo di documento dell’epoca si veda l’intervento pubblicato da SEISMIT DODA, ma per un quadro generale tuttora valido resta ALIBERTI.

Bibliografia relativa al Capitolo III (parte pubblicata)

G. ALIBERTI, Mulini, mugnai e problemi annonari dal 1860 al 1880, Milano (Istituto italiano per la storia della tecnica) 1970.

ANTONELLO 1989a
G. ANTONELLO, I mulini sul “Canale della Battaglia”, in La riviera euganea. Acque e territorio del canale Battaglia, a cura di P.G. ZANETTI, Padova 1989, p. 245-267.

ANTONELLO 1989b
G. ANTONELLO, I mulini, in Battaglia Terme. Originalità e passato di un paese del padovano, a cura di P.G. ZANETTI, Battaglia T. 1989, p. 41-51.

M.C. BILLANOVICH, Attività estrattiva negli Euganei. Le cave di Lispida e del Pignaro tra Medioevo ed età moderna, Venezia 1997 (Deputazione di storia patria per le Venezie. Miscellanea di studi e memorie, XXXIII).

M. BLOCH, Avvento e conquiste del mulino ad acqua, in M. BLOCH, Lavoro e tecnica del Medioevo, Bari 19776, p. 73-110.

E. BONOMI, Vita e tradizione in Lessinia. Testimonianze del Primo Novecento, presentazione di G. FOLENA, Camposilvano-Boscochiesanuova 19822.

S. BORTOLAMI, Acque, mulini e folloni nella formazione del paesaggio urbano medievale (secoli XI-XIV): l’esempio di Padova, in Paesaggi urbani dell’Italia padana nei secoli VIII-XIV, premessa di R. COMBA, Bologna 1988, p. 263-312.

(Boschi)
Archivio di Stato di Venezia, Boschi della Serenissima utilizzo e tutela, catalogo della mostra documentaria (25 luglio-4 ottobre 1987).

E. CAMPOS, I consorzi di bonifica nella Repubblica Veneta, Padova 1937.

G. CARRARO, Il “liber” di S. Agata di Padova (1304), con Nota di diplomatica di G. G. FISSORE, Padova 1977 (Fonti per la storia della terraferma veneta, 11).

(C.D.P. I)
Codice diplomatico padovano dal secolo sesto a tutto l’undicesimo, a cura di A. GLORIA, Venezia, 1877.

(C.D.P. II)
Codice diplomatico padovano dall’anno 1101 alla pace di Costanza (25 giugno 1183), a cura di A. GLORIA, Venezia, 1879-1881.

L. CHIAPPA MAURI, I mulini ad acqua del milanese (secoli X-XV), Città di Castello (Biblioteca della “Nuova Rivista Storica”) 1984.

(Colli Euganei)
Ricordi sui Colli Euganei, illustrazione storico e artistiche con appendice di notizie statistiche, geologiche, igieniche, ecc., Padova 1842.

COLLODO 1986
S. COLLODO, Il Prato della Valle: storia della rinascita di un’area urbana, in Prato della Valle. Due millenni di storia di un’avventura urbana, a cura di L. PUPPI, Padova 1986, p. 51-67, ristampato in Una società in trasformazione. Padova tra XI e XV secolo, Padova 1990, p. 101-136.

(Domenico Scandella)
Domenico Scandella detto Menocchio. I processi dell’Inquisizione (1583-1599)
, a cura di A. DEL COL, Pordenone 1990.

M. DONNER, Macine per cereali nel Veneto di età romana, tesi di laurea, Università di Padova Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 1991-92, rel. G. ROSADA.

(Fiabe italiane)
Fiabe italiane raccolte dalla tradizione popolare durante gli ultimi cento anni e trascritte in lingua dai vari dialetti da Italo Calvino
, vol. I, Torino 19807.

L. FONTANA, Valsanzibio, Valsanzibio 1990.

G. FRACCARO PROSDOCIMI, Torreglia. Notizie storiche dalle origini alla fine della dominazione veneziana, Torreglia 1987.

A. GALENO, Relazione della commissione consigliare sullo stabilimento Mulini di Bagnarolo, Padova 1911.

T. GARZONI, La piazza universale di tutte le professioni del mondo, Venezia 1587.

C. GINZBURG, Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ‘500, Torino 19766.

A. GLORIA, Dell’agricoltura nel padovano. Leggi e cenni storici, Padova 1855.

A. GLORIA, Il territorio padovano illustrato, I-IV Padova 1862.

(GLORIA, Statuti)
Statuti del comune di Padova dal secolo XII all’anno 1285, a cura di A. GLORIA, Padova 1873.

C. GRANDIS, I mulini di Bagnarolo, in Monselice, storia, cultura e arte di un centro ‘minore’ del Veneto, a cura di A. RIGON, Monselice 1994, p. 415-428.

(Guida Archivio Venezia)
Archivio di Stato di Venezia, in Guida Generale degli Archivi di Stato Italiani, voI. IV p. 857-1148.

(Immagine del Veneto)
L’immagine del Veneto. Il territorio nella cartografia di ieri e di oggi, a cura di P.L. FANTELLI, Padova 1994.

V. LAZZARINI, Beni carraresi e proprietari veneziani, in Studi in onore di Gino Luzzatto, Milano 1949, p. 274-288.

(Le leggi dei Longobardi)
Le leggi dei Longobardi. Storia, memoria e diritto di un popolo germanico
, a cura di C. AZZARA e S. GASPARRl, Milano 1992.

C. LEONI, Cronaca segreta de’ miei tempi 1845-1874, a cura di G. TOFFANIN Jr., Padova 1976.

(Livello)
Livello, voce del Novissimo Digesto UTET, a cura di M.A. BENEDETTO, voI. IX, p. 987-990.

P. MALANIMA, L’energia disponibile, in Storia dell’ economia italiana. I. Il Medioevo: dal crollo al trionfo, Torino 1990, p. 117-136.

M. MASSARI, Proverbi veneti commentati, Bologna 1990.

(Montegrotto Terme)
Dal castello di Montagnon alla torre di Berta. Storia e leggenda di un manufatto difensivo dei Colli Euganei, a cura di A. PALLARO, Montegrotto Terme 1999.

(Nuovi documenti)
Nuovi documenti padovani dei sec. XI-XII, a cura di P. SAMBIN, Venezia (Deputazione di Storia Patria per le Venezie) 1955.

(Pane e potere)
Pane e potere. Istituzioni e società in Italia dal Medioevo all’età moderna, catalogo della mostra a cura di V. FRANCO – A. LANCONELLI – M.A. QUESADA, Ministero per i Beni CC.AA., Roma 1991.

(Proposte)
Proposte per la sistemazione generale del Consorzio Bacchiglione e Colli Euganei, Padova 1881.

(Raccolta degli usi)
Consiglio Provinciale dell’Economia Corporativa Padova, Raccolta degli usi e delle consuetudini in materia agraria, Padova 1935.

(Regola)
La Regola di San Benedetto e le Regole dei Padri, a cura di S. PRICOCO, Milano 19982.

(Ricordi sui Colli Euganei)
Ricordi sui Colli Euganei, illustrazioni storico e artistiche, con appendice di notizie statistiche, geologiche, igieniche, ecc. (raccolta di saggi di vari autori), Padova 1846.

A. ROTA, Racconti di Valnogaredo, Vicenza 1992.

P. SAMBIN, Statuti padovani inediti. I. Concessione d’acqua al monastero di S. Maria in Vanzo (1220), “Memorie dell’Accademia Patavina di SS.LL.AA. Classe Sc. Morali, Lettere ed Arti”, voI. LXX (1957-58).

B. SAVALDI, La fabbriceria parrocchiale nelle provincie Lombardo-Venete, Milano 1994.

R. TÖLLE-KASTENBEIN, Archeologia dell’acqua. La cultura idraulica nel mondo classico, Milano 1993.

(Torreglia)
Vecchie immagini di Torreglia, a cura di G. FRACCARO PROSDOCIMI, Torreglia 1987.

M. VIGATO, L’archivio comunale di Monselice (1204-1870), “Terra d’Este”, 1995 anno 5, num. 9, p. 153-158.

M. ZACCHIGNA, Sistemi d’acqua e mulini in Friuli fra i secoli XIV e XV. Contributo alla storia dell’economia friulana nel bassomedioevo, Venezia (Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Memorie vol. LXIII) 1996.

Fonti inedite relative al Capitolo III (parte pubblicata)

A.N.
Archivio di Stato – Padova, Archivio Notarile.

Arsenale
Archivio di Stato – Venezia, Patroni, Provveditori, Inquisitori all’arsenal e Visdomini alla Tana, reg. 619.

A.S.P. Corona
Archivio di Stato – Padova, Archivio Corona.

AS.P. Ducali
Archivio di Stato – Padova, Archivio Civico Antico – Ducali.

AS.P. Miscellanea Q
Archivio di Stato – Padova, Miscellanea civile.

A.S.P. Orsato
Archivio di Stato – Padova, Archivio Orsato.

A.S.P. Praglia
Archivio di Stato – Padova, Corporazioni religiose soppresse – monasteri del territorio, S. Maria di Praglia.

A.S.P. S. Agata

AS.P. S. Francesco di Paola
Archivio di Stato – Padova, Corporazioni religiose soppresse – monasteri della città, S. Francesco di Paola.

B.I.
Archivio di Stato – Venezia, Provveditori sopra Beni Inculti.

B.I. Pr.
Archivio di Stato – Venezia, Provveditori sopra Beni Inculti. Processi.

Catastico
Archivio di Stato – Venezia, Provveditori sopra Beni Inculti. “Catastico delle investiture Padova, Polesine, Treviso, Belluno, Friuli”.

FIANDRINI
Don Benedetto Fiandrini, Memorie storico-cronologiche dell’insigne monastero di S. Maria di Praglia, Biblioteca Civica di Padova, manoscritto BP 127VI.

Giudici
Archivio di Stato – Venezia, Giudici di Petizion. Inventari.

I mulini ad acqua dei Colli Euganei, copertina.

Claudio Grandis, I mulini ad acqua dei Colli Euganei, Este, Parco Regionale dei Colli Euganei, 2001 – pagine 43-48, 55-61, 67-72, 77-93 (Capitolo III).