I Colli Euganei nel “Grand Tour”

1. Itinerari veneti del “Grand Tour”

Che una delle rotte principali del Grand Tour passasse per il Veneto non può sorprendere. Il Grand Tour era il viaggio di formazione, tipico dell’età moderna, che i giovani aristocratici e i facoltosi gentiluomini dell’Europa settentrionale affrontavano allo scopo di accrescere il proprio bagaglio culturale, con un impegno che durava parecchi mesi: ovvio che la loro meta fossero le città europee più famose per l’arte, la cultura, l’archeologia, la musica. E in Veneto città con tali requisiti di certo non mancavano, anzi alcune potevano tranquillamente competere con le più note città della penisola e del continente.
Era ovviamente Venezia ad esercitare la più forte attrattiva, ma non va sottovalutata l’importanza di Padova, la cui università, tra l’altro, nella seconda metà del ‘500 era frequentata da alcune migliaia di studenti stranieri.
Il viaggio di formazione ebbe tra le mete privilegiate il Veneto fin dalle sue origini, che si possono collocare all’incirca verso la metà del secolo XVI, prima quindi di quella che alcuni studiosi hanno chiamato la sua “istituzionalizzazione”. Questa viene fissata intorno alla metà del Seicento, epoca in cui compare per la prima volta la definizione di Grand Tour, che poi entrerà nell’uso comune.
Nella nostra regione l’itinerario canonico del Grand Tour si sviluppa lungo l’asse che, da ovest ad est, congiunge Verona a Venezia passando per Vicenza e Padova. È l’itinerario che seguirono, tra gli altri, Montesquieu, De Brosses, Goethe. Su questo percorso si innesta un altro itinerario, che potremmo definire di trasferimento, e che si snoda, quasi perpendicolarmente al primo, lungo l’asse nord-sud, da Padova a Rovigo. È la via obbligata per chi vuole scendere verso Ferrara, Bologna e di là raggiungere Roma. Lo percorsero, per fare solo alcuni esempi, Montaigne, De Brosses, Goethe, Seume.
I due assi viari, naturalmente, possono essere percorsi in entrambi i sensi: di norma si va da ovest verso est, e poi da nord verso sud, in direzione di Roma. Rispetto a queste direttrici poche sono le varianti: fra queste si può segnalare l’itinerario seguito dall’inglese Coryat all’inizio del ‘600. Ricalca il tracciato dell’attuale strada statale Padana Inferiore: da Cremona a Mantova, quindi Legnago-Este-Padova. Ma è un’eccezione.
Ne consegue che soltanto per un tratto dell’itinerario nord-sud, quello da Padova a Monselice, i Colli Euganei sono raggiunti dai viaggiatori stranieri. È, come è evidente, un itinerario che non attraversa i colli, si limita a lambirli, ad accarezzarne le propaggini più orientali, quelle che sembrano quasi volersi specchiare nelle acque del canale di Battaglia o “riviera euganea” come oggi si comincia a chiamare il canale navigabile scavato in età medievale per collegare Padova a Monselice. Soltanto in casi eccezionali, e limitatamente a due punti, i viaggiatori effettuano una diversione verso ovest; si staccano cioè dall’asse rettilineo e si insinuano all’interno dell’area collinare.
Ciò nondimeno, questo percorso appare ai viaggiatori, anche a quelli che lo seguono senza farvi sosta, pieno di fascino. Per qualcuno, addirittura, ha poco o nulla da invidiare alla ben più celebrata riviera del Brenta. Per due aspetti: in primo luogo per le fastose ville disseminate lungo il canale, poi per l’incantevole sfondo costituito dal profilo degli Euganei.

Carta dei Colli Euganei pubblicata da Vandelli nel 1761 che mostra il tratto Padova-Monselice del "Grand Tour".

Carta dei Colli Euganei (da D. Vandelli, Tractatus de thermis agri Patavini, Padova 1761 vedi). Il canale Padova-Monselice coincide con l’asse viario percorso dai viaggiatori stranieri.

Il primo ad esaltare le qualità paesaggistiche della riviera euganea è Thomas Coryat in Crudezze, il giornale del viaggio effettuato in Italia nel 1608:

Per tutto il tratto da Este a Padova seguii la riva del fiume Brenta, lasciandomelo sulla sinistra. Su ambo i lati di questo fiume vidi molti deliziosi palazzi e case da banchetti, che servono come case di villeggiatura ai signori di Venezia e di Padova, e nei quali si sollazzano durante l’estate.

Villa Contarini di Monselice. Immagine pubblicata da Coronelli nel 1709.

Monselice, Villa Contarini (da V. Coronelli, La Brenta quasi luogo di delizie della città di Venezia, Venezia 1709 vedi). “Vidi molti deliziosi palazzi e case da banchetti, che servono come case di villeggiatura ai signori di Venezia e di Padova” (T. Coryat).

A istituire il confronto con la Riviera del Brenta è il francese Charles De Brosses, che nel 1741 divenne presidente del Parlamento di Borgogna, in una delle Lettere familiari, dedicate al viaggio compiuto negli anni 1739-1740:

La campagna è bella e fertilissima. Costeggiavamo le rive del Battaglia, lungo le quali vi sono case ancor più belle che sul Brenta, ma meno numerose.

Un’impressione sostanzialmente simile a quella di De Brosses riportò una trentina di anni più tardi l’abate J. Richard, che però rifece il percorso del suo connazionale venendo da sud:

Uscendo da Monselice, si attraversa un ruscello e si segue un canale navigabile che costeggia la strada fino a Padova. Ai due lati del canale si vedono numerose ville di campagna, tra le quali le più sontuose appartengono ai nobili veneziani. Per una lunghezza dalle 12 alle 14 miglia, ovvero una posta e mezza, il territorio a destra della strada è di straordinaria fertilità.

A sottolineare l’effetto scenografico creato dalla quinta dei colli ci pensa il grande Chateaubriand, che nel settembre 1833 imboccò la strada che da Padova porta verso sud con l’intento di arrivare a Ferrara:

È incantevole questa strada fino a Monselice: colline di un’eleganza estrema, giardini di fichi, di gelsi e di salici ornati di festoni di vigne, prati ameni, castelli in rovina. […]
I Colli Euganei, mentre li attraversavo, si doravano dell’oro del tramonto con una gradevole varietà di forme e una grande purezza di linee.

Villa Selvatico a Battaglia. Immagine pubblicata da Volkamer nel 1714.

Battaglia, Villa Selvatico (da J.C. Volkamer, Continuation der Nürnbergischen Hesperidum, Nürnberg 1714). “Costeggiavamo le rive del Battaglia, lungo le quali vi sono case ancora più belle che sul Brenta” (C. De Brosses).

Sono impressioni che oggi possono stupire più di qualcuno, perché mai o quasi mai capita di sentirle sulla bocca di chi ripercorre oggi lo stesso itinerario. Farsene una ragione non è difficile: sul piano della percezione del paesaggio l’esperienza di chi ai giorni nostri viaggia tra Monselice e Padova sulla Statale 16 è molto diversa da quella dei viaggiatori del passato, che usavano come strada le sommità arginali. Oggi si ha una visione meno vasta, per lo schermo rappresentato dall’argine del canale, e fortemente alterata dalla velocità del mezzo di trasporto.

2. Lungo la “riviera euganea”

Battaglia
Come oggi, anche nei secoli scorsi chi percorreva questo asse viario sostanzialmente rettilineo incontrava soltanto due punti focali: Battaglia e Monselice. Erano gli unici centri abitati di qualche rilievo tra Padova e Rovigo. Nelle memorie dei viaggiatori tra le due località Battaglia è sicuramente quella a cui è riservata l’attenzione maggiore e lo spazio più ampio.
Ciò che a Battaglia colpisce indistintamente tutti i viaggiatori è il Cataio, la singolare e imponente emergenza architettonica innestata sul pendio del monte Ceva. D’altra parte non poteva essere che così. Almeno per due motivi. Il primo attiene alle rilevantissime dimensioni della villa fatta costruire dagli Obizzi nel secolo XVI, il secondo all’atteggiamento di chi intraprendeva il Grand Tour, che, come si è detto, era finalizzato proprio alla conoscenza della cultura e della storia: inevitabilmente l’attenzione si concentrava sull’antico, sui monumenti, sull’arte.

Battaglia, il Cataio. Immagine pubblicata nel 1714.

Il Cataio (da J.c. Volkamer, Continuation der Nürnbergischen Hesperidum, Nürnberg 1714).

L’impressione prodotta dal Cataio nei viaggiatori stranieri è forte, ma non accattivante. Si può tranquillamente affermare che il giudizio estetico formulato dalla maggior parte di loro è assai severo. Il più aspro è quello di De Brosses, che peraltro aveva già bocciato nientedimeno che la basilica di S. Marco. Per il Presidente del Parlamento di Borgogna il Cataio è un “anfiteatro di cattivo gusto, con alte mura merlate”, per il quale si è spesa una somma fantastica. Il committente è accusato di aver nutrito una insana passione per “allusioni puerili all’antichità”. La condanna si estende dalla forma architettonica agli interni: gli affreschi gli appaiono tutti mediocrissimi, tranne “alcune cose buone” attribuibili a Paolo Veronese.
Un’altra decisa stroncatura del Cataio è pronunciata da Charles Cochin, incisore e disegnatore, nel suo Voyage d’Italie ou recueil de notes sur les ouvrages de peinture et de sculpture qu’n voit dans les principales villes d’Italie, edito a Parigi nel 1758. Cochin non si esprime sull’architettura, ma sugli affreschi scende nel dettaglio. E le conclusioni a cui arriva non sono meno severe di quelle di De Brosses. Le pitture gli sembrano fatte molto velocemente, senza alcuna diligenza e senza studio. Se sono veramente di Veronese, non sono  –  è la sua conclusione  –  tra le sue opere più belle.
Neppure in età romantica il giudizio sembra subire mutamenti significativi. Antoine Claude Valery, un altro francese in viaggio da Padova a Rovigo nella seconda metà degli anni Venti dell’Ottocento, gli dedica una citazione brevissima, nella quale sembra serpeggiare una vena di sarcasmo: “È un castello sul quale ci si aspetta quasi di vedere il nano con il corno come nei romanzi cavallereschi”.

I Colli Euganei e il Cataio visti da Battaglia. Incisione del sec. XVIII.

I Colli Euganei e il Cataio visti da Battaglia (incisione del secolo XVIII). “Sui merli del Cataio ci si aspetta quasi di veder comparire il nano con il corno, come nei romanzi cavallereschi” (A. C. Valery).

È evidente che per i viaggiatori appena citati il Cataio non rientra nei cliché classicisti che portano con sé e dai quali non riescono ad allontanarsi. Dal coro di critiche pochissimi si staccano. Tra questi c’è Montaigne che, tra i viaggiatori qui considerati, è il primo a raggiungere Battaglia. Siamo nel 1580:

Passammo accanto alla bellissima dimora d’un gentiluomo di Padova, dove abitava da più di due mesi, malato di gotta, il cardinale d’Este, per la comodità delle acque e più ancora per la vicinanza delle Dame di Venezia.

Questa citazione ci introduce ad un’altra peculiarità di Battaglia: la presenza delle terme. A ben guardare, non sono molti i viaggiatori stranieri che nelle loro memorie di viaggio parlano di Battaglia come centro termale. Il che sorprende un po’, perché la frequentazione dei bagni da parte di stranieri è ben documentata già a metà del Seicento e in misura ancora più consistente nella seconda metà del Settecento. In un catalogo degli ospiti del 1771 su un totale di 322 presenze sono registrati 158 forestieri e tra questi più inglesi che tedeschi; e nel 1778 gli stranieri sono ancora varie decine.
Per nostra fortuna, tra i pochissimi viaggiatori che parlano dei bagni di Battaglia ci sono due scrittori straordinari quali Montaigne e Stendhal. Che i loro giornali di viaggio siano tra i più originali e affascinanti, lo si può capire già dai passi dedicati alla piccola ma vivace località euganea.
In Roma, Napoli e Firenze, pubblicato nel 1817 a Parigi e riedito nel 1827 in una versione ampliata, Stendhal racconta di aver soggiornato per quattro giorni ad Arquà e a Battaglia, “luogo celebre per i bagni”, nel luglio del 1817. L’autore del Rosso e il nero non è colpito tanto dall’ambiente fisico, dal paesaggio, quanto dall’atmosfera, dalla temperie umana che si crea alle terme: “È alle acque che si dispiega tutta la felicità del carattere veneto; ho incontrato il conte Bragadin, uno degli uomini più amabili che io abbia mai visto”. Per lo scrittore francese la stazione termale è “lo zampillio della felicità (la saillie du bonheur), della felicità conservata malgrado le circostanze ordinarie della vita”. Riporta inoltre una conversazione intrecciata con un signore di Firenze in un caffè di Battaglia.

Stendhal si è fermato anche ad Arquà e a Battaglia.

Ritratto di Marie-Henri Beyle, noto come Stendhal.

Ben più ampia e dettagliata è la descrizione dei bagni restituitaci dal giornale di Montaigne. Il quadro della situazione è disegnato nei suoi particolari con straordinaria precisione. Il viaggiatore francese, che giunge a Battaglia il 13 novembre 1580 dopo aver visitato Abano e San Pietro (oggi Montegrotto), vi quantifica la capienza dell’albergo (10 o 12 stanze), ma precisa che si può alloggiare anche nel paese e nel Cataio. Si preoccupa di fornire informazioni dettagliate sull’origine e la qualità dell’acqua. Descrive colore e consistenza dei depositi lasciati dalla stessa. Infine illustra con meticolosità tecnica le terapie praticate, distinguendo le cure con l’acqua da quelle con il fango.
È, se non la prima, una delle prime descrizioni dettagliate delle terme di Battaglia. Lo scrupolo descrittivo dimostrato da Montaigne in questo caso va sicuramente correlato allo spiccato interesse per le acque da parte di un uomo che soffriva di litiasi renale e che nel suo giornale di viaggio arriva a descrivere minuziosamente le coliche e i calcoli espulsi di volta in volta.
Ma, al di là di questo, in Montaigne agisce una vivacissima curiosità per qualsiasi attività umana, per qualsiasi opera dell’uomo, per qualsiasi invenzione, per qualsiasi tecnica, e dunque anche per quelle messe a punto per sfruttare le sorgenti termali a beneficio dell’uomo, come mostra il passo seguente:

Soprattutto si fa uso di fango, che vanno a prendere in una gran vasca posta all’aperto ai piedi della casa; un certo strumento permette d’attingerne e portarne nell’abitazione lì accanto. Hanno pure vari arnesi di legno atti a distendervi e chiudervi gambe, braccia, cosce ed altre parti, dopo averli riempiti di fango, che si rinnova secondo il bisogno.

È questa curiosità, quasi scientifica, che fa sì che Montaigne, unico fra tutti, rivolga il suo sguardo alla dimensione fluviale di Battaglia, osservi i battelli che scivolano sul canale, e soprattutto individui l’arditezza, il valore ingegneristico dei manufatti idraulici che avevano consentito di realizzare lungo la riviera di Battaglia uno snodo fluviale di prim’ordine.
Mi riferisco al passo, di lettura non facilissima, in cui viene minutamente descritta una complicata costruzione idraulica che, con ogni probabilità, può essere identificata con il ponte-canale della Rivella. Oggi quel sito ci presenta una situazione notevolmente diversa da quella esistente all’epoca del viaggio di Montaigne e ciò ha reso particolarmente ardua l’interpretazione del brano, costringendo i traduttori italiani a qualche spericolata acrobazia.
Dopo aver descritto il canale e il ponte assai elevato che a quel tempo lo scavalcava, Montaigne aggiunge:

C’è poi giù nella piana un altro grosso rivo che viene dalle montagne, e il cui corso traversa il canale; appunto perché potesse farlo senza interromperlo è stato costruito il ponte di pietra su cui il canale scorre, mentre sotto scorre il detto rivo, tagliandolo su un letto rivestito di legno sui fianchi. Di modo che il rivo è in grado di portar barche; avrebbe spazio sufficiente in altezza e in larghezza. E poiché altre barche passano continuamente sul canale, e dei carri sul più alto dei ponti, si hanno tre strade una sull’altra.

È dunque la singolarità della soluzione tecnica che colpisce l’attenzione del viaggiatore. Il Cataio, al confronto, gli sembra, pur nella sua bellezza, molto meno interessante, tale da non meritare più di un paio di righe.

Monselice
Quando arrivano a Monselice, i viaggiatori gettano uno sguardo, più o meno distratto, al colle della rocca. Poi proseguono in direzione di Rovigo. Così fa De Brosses, che nelle sue Lettere cita Monselice unicamente per “una sorta di castello a punte di diamante in cima ad una roccia”. Così fa anche Johan Caspar Goethe, il padre dell’autore del Faust, che viene in Italia nel 1740, quasi mezzo secolo prima del figlio. Monselice gli appare come una “villa mediocre, con una fortezza di montagna mezzo distrutta”.
Qualche notizia in più su Monselice è disseminata in testi che, pur essendo di norma inclusi nella letteratura di viaggio, non sono veri libri di viaggio (giornali, diari, memorie, ecc.), ma guide per i viaggiatori. È il caso dell’Itinerario d’Italia di Francesco Scoto, uscito nel 1600, ma poi riedito più volte con consistenti rimaneggiamenti. In un’edizione padovana di metà ‘600, oltre al consueto cenno agli “avanzi d’una ruvinata fortezza”, si legge che “qui si fa una gran presa di vipere per la Teriaca“. La stessa informazione è ripresa pedissequamente dal francese Deseine nel suo Nouveau voyage del 1699: “Si vede a metà strada il delizioso villaggio di Monselice, dove ci sono le rovine di un’antica fortezza; là vicino si prendono molte vipere che si portano a Venezia per fare il teriaco”.
Sono pochi quelli che passando per Monselice non si accontentano di uno sguardo alla rocca, che si guardano intorno, osservano la campagna coltivata, il lavoro dell’uomo. Fra questi c’è Augusto Dionigi Fougeroux de Bondaroy che è l’unico, per quanto si sa, a fare una sosta in città.

Veduta di Monselice, circa 1840.

Veduta di Monselice (dis. Kikinger, lit. Schwemminger, c. 1840).

Il giornale di viaggio di questo viaggiatore francese, che era membro dell’Accademia delle Scienze di Parigi e venne in Italia nel 1763, non è attualmente reperibile. Ne conosciamo a grandi linee il contenuto e ne possiamo avere qualche assaggio grazie ad una succinta monografia di Bruno Brunelli, che ne aveva acquistato il manoscritto durante un viaggio in Francia. Fougeroux de Bondaroy racconta di essere giunto a Monselice la domenica 26 giugno e di aver ascoltato la messa nella chiesa di un convento, dove con i compagni di viaggio poté ammirare una pala rappresentante la Sacra Famiglia.
L’annotazione più interessante riguarda la campagna, nella quale l’autore del giornale e i suoi compagni osservano “una intensa coltivazione del blé de Turquie [granoturco] e le case coloniche coperte di canne e di paglia”. Va detto che il Fougeroux era appassionato di agricoltura e aveva ereditato vaste proprietà, nelle quali aveva sperimentato nuovi metodi di coltivazione.
Sulla diffusione della coltivazione del mais nelle campagne monselicensi è ancora più significativa la testimonianza fornitaci da quel singolare viaggiatore che è il tedesco Johann Gottfried Seume: singolare perché nel 1802 effettuò un viaggio da Lipsia a Siracusa a piedi, da solo, con un bastone e uno zaino di pelle di foca pieno zeppo di testi classici. Fu proprio la minor velocità negli spostamenti a permettergli di vedere una realtà che ad altri – quelli che si servivano di carrozze e cavalli – sfuggiva. “Chi va a piedi vede più di chi viaggia in carrozza”, scrive Seume, che non esita a condannare come nocivo e degradante per l’uomo l’uso della carrozza:

Camminare è l’attività più libera e indipendente, niente vi è di peggio che star seduti troppo a lungo in una scatola chiusa. Guardiamoci intorno: dove tutti vanno in carrozza tutto va male; chi si fa trascinare da un veicolo si abbassa di molti gradi dalla sua dignitosa e genuina umanità.

Nel suo giornale di viaggio racconta che, fermato si in un’ osteria nei pressi di Monselice, chiese che gli fosse portato un pezzo di pane dichiarandosi disposto a pagarlo a qualsiasi prezzo, ma riuscì ad avere soltanto “una fetta di cattiva polenta”.
Fougeroux e Seume si staccano dal cliché del viaggiatore interessato essenzialmente, se non esclusivamente, all’arte, osservano la realtà nei suoi aspetti più dimessi, nella sua quotidianità; ma non possono competere con Montaigne quanto a capacità e finezza di osservazione. Partendo da Monselice l’autore degli Essais sa cogliere immediatamente, con grande acutezza, alcuni tra i più significativi caratteri del territorio circostante. Anzitutto la bellezza della strada piana in rilevato che porta a Rovigo, poi la fertilità della pianura, caratterizzata dalla tipica “piantata”: i molti filari di alberi ben allineati da cui pendono le viti. Ma ciò che attira maggiormente la sua attenzione è la vera novità del Monselicense: l’imponente opera di bonifica intrapresa dai Veneziani in un’area contrassegnata dalla presenza di vaste zone paludose o soggette ad un instabile regime idraulico:

Un tempo erano stagni grandissimi, ma la Signoria ha tentato di prosciugarli per fame arabile, e qua e là ci è riuscita; ma è poca cosa. Adesso è un’infinita distesa di terreno fangoso, sterile e pieno di canne; a voler cambiar la sua forma ci hanno più perso che guadagnato.

A Montaigne, dunque, il bilancio di quell’opera imponente appare in rosso. La cosa può sorprendere chi, come noi oggi, è consapevole degli straordinari benefici prodotti dalle bonifiche cinquecentesche; ma c’è da credere che il suo giudizio sarebbe stato diverso, se non fosse transitato quando era ancora troppo presto per apprezzarne pienamente tutti i frutti.

NOTE

1. Itinerari veneti

Per un inquadramento generale sul Grand Tour rinvio a C. De Seta, L’Italia nello specchio del “Grand Tour”, in Annali della Storia d’Italia, V, Torino, Einaudi, pp. 127-263. Per gli itinerari veneti ad A. Tenenti, Venezia e il Veneto nelle pagine dei viaggiatori stranieri (1650-1790), in Storia della cultura veneta. Il Settecento, 5, Vicenza, Neri Pozza, 1985, pp. 557-578. Si veda inoltre la sezione dedicata ai Viaggiatori stranieri tra Padova, Este e i Colli Euganei in “Terra d’Este”, VI n. 11 (1996).
Per la descrizione dell’itinerario Padova-Monselice ho tenuto conto delle seguenti opere:
T. Coryat, Crudezze. Viaggio in Francia e in Italia 1608, a cura di F. Marenco e A. Meo, Milano 1975, p. 169.
C. De Brosses, Viaggio in Italia. Lettere familiari, Roma-Bari 1992, p. 170.
J. Richard, Description historique et critique de l’Italie, Paris 1769, II, p. 171. Download gratuito: books.google.it
F. R. Chateaubriand, Mémoires d’outre-tombe, Paris, Gallimard, 1983, II, pp. 798-799.

2. Lungo la “riviera euganea”

Su Battaglia:
Una buona scheda storico-artistica sul Cataio è fornita da P. L. Fantelli, Ville venete a Battaglia Terme, in Battaglia Terme. Originalità e passato di un paese del Padovano, Battaglia 1989, pp. 104-111.
C. De Brosses, Viaggio in Italia. Lettere familiari, Roma-Bari 1992, p. 170.
C. N. Cochin, Voyage d’Italie ou recueil de notes sur les ouvrages de peinture et de sculpture qu’n voit dans les principales villes d’Italie, Lausanne 1773, III, p. VI. Download gratuito: books.google.it
C. Valery, Voyages historiques et littéraires en Italie, pendant les années 1826, 1827 et 1828, ou L’Indicateur italien, Bruxelles 1835, pp. 167-168. Download gratuito: books.google.it
Per una traduzione delle pagine dedicate a Battaglia e ad Arquà si veda “Terra d’Este”, VI (1996), 11, pp. 41-45.
Montaigne, Journal de voyage en Italie, Edition prèsentée, établie et annotée per P. Michel, Paris 1992. Qui cito dalla traduzione di Alberto Cento pubblicata nel 1972 da Laterza e riedita dieci anni fa: Viaggio in Italia, Roma-Bari 1991, pp. 118-120.
Ricavo i dati sulla presenza di ospiti stranieri da R. Piva, Le confortevolissime terme. Interventi pubblici e privati a Battaglia e nelle terme padovane fra Sette e Ottocento, Battaglia 1985, p.16, 30 e 34.
Stendhal, Roma, Napoli e Firenze nel 1817, Milano 1943, pp. 161-167. Per il testo francese rinvio a Voyages en Italie, Paris 1973, p. 113 e sgg. Download gratuito (ed. 1826): books.google.it
L’identificazione della struttura descritta da Montaigne con il ponte-canale di Rivella è già stata proposta da P. Zanetti, Una difficile regolazione delle acque, in La Riviera Euganea, Acque e territorio del canale Battaglia, Padova 1989, pp. 211-212: “Montaigne descrisse dettagliatamente, anche se un po’ confusamente, Rivella e il ponte-canale. Il francese parlò di un ponte “assai elevato” che congiungeva le due rive del canale Battaglia e di un ponte di pietra (ponte-canale) su cui scorreva il canale stesso, mentre sotto passava il “torrente” (canale di bonifica). La struttura era quindi articolata su tre livelli”.

Su Monselice:
J. C. Goethe, Viaggio in Italia (1740), Roma 1932-1933, t p. 75.
L’opera di Francesco Scoto uscita nel 1600 con il titolo Itinerari Italiae rerumque romanarum libri tres (Antverpiae 1600) fu più volte ripubblicata in traduzione italiana e con ampi rimaneggiamenti nei secoli XVII e XVIII. Qui cito da Itinerario overo nova descrittione de’ viaggi principali d’Italia di Andrea Scoto, Padova, Francesco Bolzetta, 1649-1651. Per un profilo dello Scoto si veda Biografia universale antica e moderna, Venezia 1829, LII, ad vocem Schott Andrea. Download gratuito (ed. 1600): books.google.it
F. Deseine, Nouveau voyage d’Italie, Lyon 1699, I, p. 108. Download gratuito: books.google.it
B. Brunelli, Padova, Vicenza e Verona nelle note di viaggio di un francese del Settecento, in “Memorie della R. Accademia di Scienze Lettere ed Arti in Padova”, LVII (194041), pp. 5-7.
J. G. Seume, L’Italia a piedi 1802, Milano 1973, p. 124.
Montaigne, Viaggio in Italia, Bari 1991, 118-123.