Chi va al mulino s’infarina

Illustrazione dei principali sistemi di alimentazione delle ruote, collegate ai mulini e alle altre macchine idrauliche.

Lo schema pone a confronto i principali sistemi di alimentazione delle ruote, collegate ai mulini e alle altre macchine idrauliche. (BROWN, p. 141)

La spinta dall’alto, che abbiamo in parte già illustrata nelle pagine precedenti, identificava nella nostra regione il mulino a coppedello. Impiegata per gli impianti terragni di collina, era in grado di sfruttare i dislivelli dovuti alle forti pendenze dei torrenti e dei calti. L’acqua veniva imbrigliata in stretti canaletti di legno, dopo essere stata raccolta in appositi bacini, i gorghi, e condotta sino alla sommità della ruota: era così possibile sfruttare anche l’acqua di risorgiva e quella piovana, sorgente o caduta a monte dell’opificio.

La spinta dal basso costituiva la forma più diffusa dell’azionamento di una ruota idrualica ed era sfruttata per gran parte dei mulini galleggianti e natanti, nonché per buona parte di quelli costruiti lungo i corsi d’acqua minori, canali, rogge, ecc. L’ottimale sfruttamento della propulsione si riusciva ad ottenere calibrando sapientemente la porzione di ruota da immergere nell’acqua: in questo modo la spinta vinceva l’inerzia di alberi e ingranaggi. Così come ci sono pervenute, le ruote dei mulini natanti mostrano evidenti i segni di un perfezionamento durato a lungo. La leggerezza, l’essenziale sobrietà nella costruzione, l’esiguo numero delle lunghe e sottili pale, i raggi di collegamento tra le stesse e l’asse centrale, testimoniano il risultato di una collaudata esperienza, affinata proprio nella continua ricerca di raggiungere il massimo rendimento con il minimo sforzo. Le grandi ruote a pale si trovavano installate negli opifici galleggianti del Bacchiglione a monte e a valle di Padova e in quelli natanti di Brenta e Adige.

Con spinta dal basso poi erano azionati gran parte dei mulini di pianura, come quelli movimentati dall’acqua del Muson, del canale Battaglia, del Biancolino, del Frassine e del Cereson. In questi impianti però le ruote sempre dotate di pale si avvicinavano nella forma a quelle dei mulini degli Euganei, cioè grande diametro e ridotto spessore.

Nei mulini di pianura, fatti salvi i periodi di magra, era possibile regolare il flusso idrico diretto sulla ruota mediante delle paratie (traverse in legno, mobili) poste a monte e spesso collocate ai lati di uno sbarramento dell’alveo, la così detta rosta. In tutti gli altri casi la spinta dal basso era regolata da opportuni rubinetti in grado di agire sulle derivazioni collocate lungo l’alveo di fiumi e canali, come avveniva nel caso dei mulini distribuiti sull’idrovia Padova−Monselice.

La spinta di fianco detta anche dalle reni era la soluzione intermedia, se così può essere definita, tra le due precedenti: l’acqua in questo caso colpiva le pale all’altezza dell’asse di rotazione, riempendole e movimentandole. Il sistema per funzionare aveva però bisogno di un idoneo convogliamento e di una altrettanto efficace protezione attorno alla ruota, nel tratto colpito dall’acqua, onde evitare la dispersione laterale e consentire in tal modo una forte pressione sulle pale. Era applicato sia negli opifici di terra che in quelli sull’acqua. L’esempio più felice può essere ricondotto al complesso di Pontemolino, se è vero che l’acqua del Bacchiglione dopo il condottamento e il salto dallo smergone (soglia) scivolava via incanalata in un alveo artificiale. Che le ruote di Pontemolino fossero azionate dalla spinta sulle reni lo si desume non tanto dalle perizie tecniche redatte nel corso dei secoli, bensì dagli Statuti del comune di Padova che nel 1362 imposero il rispetto dei livelli d’immersione delle pale 20. Il fitto popolamento nel Bacchiglione extra muros civitatis non consentiva infatti la presenza di larghe ruote, come le altre del medesimo fiume ricordate in precedenza, per cui solo una spinta dalle reni era in grado di animare simultaneamente le trentacinque ruote ricordate dai cronisti medioevali 21.

L’asse della ruota

A trasmettere il moto rotatorio prodotto dall’energia idraulica ci pensava l’asse orizzontale − detto albero o fuso e in padovano melo − della ruota. Nell’estremità interna presentava uno spesso e robusto disco di legno − il lubecchio − che i mugnai padovani conoscevano con il termine scudo. L’asse entrava nell’edificio del mulino attraverso una comoda apertura circolare praticata sulla parete perimetrale, sia degli edifici in legno, sia di quelli in pietra e mattoni; una feritoia particolarmente familiare alle frotte di topi di taglia variabile che costituiva la clientela più fedele e altrettanto sgradita ai mugnai di tutta la provincia.

L’albero era ricavato da un solido tronco di legno capace di resistere alla perenne umidità e alla sollecitazione di torsione provocata dalla spinta dell’acqua contrapposta all’inerzia dell’ingranaggio interno, quest’ultima generata dal funzionamento dei palmenti. I maggiori problemi si presentavano per gli alberi dei mulini galleggianti, dotati, come abbiamo visto, di larghe ruote capaci di deformare le fibre del tronco durante il funzionamento; per assicurarne la durata i marangoni (falegnami) da mulini ne cerchiavano le estremità con un anello in ferro, la padovana vera, capace di sostenere anche i pesanti perni in ferro – gli aseggi – che innestati nella testa dell’asse, dall’altro trovavano alloggio su idonei supporti (le tagiole dei mulini euganei) spesso ricavati da squadrati blocchetti di trachite detti aseggiari. Una stima del 1834 descrivendo i mulini di Rovolon evidenzia che “l’asse o melo di rovere è armato di otto faccie di ferro coi due assi ed aseggi di ferro, l’esterno appoggiato sopra tagiola di masegna sostenuta d’aseggiaro con cavalle e sottoposto piumazzo di rovere in sufficiente stato, e nell’interno sopra eguale tagiola in aseggiaro di rovere sostenuto dai muri di masegna a secco degli angoli della fossa sottoposta al molino”, dove le faccie identificano le fascie cioè gli anelli di rinforzo dell’albero, gli assi e gli aseggi i robusti perni orizzontali innestati nell’albero, la tagiola il cuscinetto in trachite opportunamente sagomato per contenere gli aseggi, l’aseggiaro (termine della medesima radice di seggio, seggiola) il robusto trave ligneo disposto orizzontalmente per sorreggere l’albero della ruota, quasi una sedia d’appoggio, le cavalle con sottoposto piumazzo i sostegni inclinati a mo’ di cavalletto realizzati in legno di rovere.

Tagiola in Trachite, Cervarese Santa Croce (PD).

Cervarese Santa Croce. Tagiola in trachite, recuperata dal Bacchiglione, impiegata come bronzina per l’inzignon, cioè l’albero di rotazione in ferro, innestato sull’altra estremità alla macina girante.

Foto: Claudio Grandis.

L’asse della ruota poteva essere un tutt’uno con la ruota stessa come accadeva nei mulini galleggianti, oppure solo calettata: in questo caso era possibile la sua sostituzione senza il rifacimento della ruota a pale. Con un altro calettamento, inserito all’estremità opposta, era invece fissato il lubecchio (il padovano scudo) poiché di questo più frequenti ne erano le manutenzioni e le sostituzioni. Coassiali tra loro e così collegate ruota idraulica, albero e lubecchio, cioè melo, roda, scudo con li soi feramenti, per usare l’espressione riportata nelle stime dei mulini padovani, compivano il medesimo numero di giri, seppur con velocità periferiche diverse. Un problema mai del tutto risolto per l’albero di rotazione rimase l’adozione di un’idonea sede degli appoggi estremi, capace di evitare surriscaldamenti e, soprattutto, continui logorii, difficoltà che oggi in analoghe situazioni è risolta con l’applicazione dei cuscinetti a sfere; in passato si utilizzava il grasso animale per favorire lo scorrimento, ridurre l’attrito degli organi, contenere l’usura del prezioso cardine in ferro.

L’ingranaggio

Il cuore meccanico del mulino romano pulsava nell’ingranaggio, destinato a trasmettere il moto rotatorio dell’albero orizzontale all’asse verticale sulla cui estremità era innestata la macina vera e propria. All’interno del mulino l’ingranaggio veniva a trovarsi al centro di una cubica struttura lignea. Quattro solidi pilastri sostenevano un robusto tavolato piano, detto sottomezale, che serviva d’appoggio alla macina inferiore, la dormiente o giacente.

Macina dormiente, Teolo (PD), marzo 1997.

Teolo, marzo 1997. Una macina dormiente.
Foto: Claudio Grandis.

Al centro del tavolato un foro permetteva il passaggio dell’asse verticale, chiamato dai mugnai nostrani inzignon, capace di far girare la pesante macina superiore. Sul termine inzignon varrebbe la pena di soffermarci per sottolineare almeno la sua affinità lessicale con altri vocaboli presenti nel variegato dizionario locale, come l’emzegnero (ingegnere) medievale o la più comune espressione “el ga inzegno” per indicare una persona abile tecnicamente, capace di risolvere problemi pratici con soluzioni semplici ed efficaci. Anche l’inzegnarse (arrangiarsi, l’arte di cui gli italiani da secoli sono maestri!) presenta la medesima radice e la dice lunga sull’origine del termine tecnico attribuito all’organo meccanico del mulino.

Ma ritorniamo al lubecchio che, come già detto, identificava il robusto disco in legno dotato sulla circonferenza opposta alla ruota, di numerosi denti o cavicchie, distribuite ad intervalli regolari. Il numero dei denti variava a seconda delle dimensioni del mulino: normalmente se ne contavano una cinquantina, e più precisamente quantità multiple di quattro, sempre comunque rapportato alle fessure presenti nella lanterna, il manicotto cilindrico con fuselli a rocchetto, posto all’estremità inferiore dell’inzignon. L’insieme equivaleva al locale inzignon fornido, o all’inzignon fornido in sei brazelle riportato nei documenti che accompagnano le stime peritali degli opifici. La lanterna, a sua volta, era composta da due dischi in legno, paralleli tra loro e posti alle basi inferiore e superiore del cilindro, in grado di reggere alla periferia, sullo sviluppo verticale di questa, le brazelle o brazolle, solide aste a sezione cilindrica della lunghezza di alcune decine di centimetri disposte ad intervalli regolari e parallele tra loro. Tra una brazella e l’altra s’infilavano i denti (cavicchie) del lubecchio. Una lanterna contava da nove a dodici brazelle. Anche qui l’espressione dialettale ci riporta all’immagine delle brazole (braciole), le costole della cassa toracica degli animali che per la conformazione molto assomiglia, esternamente, alla forma della lanterna.

L’adozione di questo singolare ingranaggio (lubecchio / lanterna o scudo / brazelle) si spiegava col consumo materiale delle macine, soggette a costante riduzione dello spessore e del peso. Un diverso ingranaggio non avrebbe consentito la continua oscillazione dell’asse verticale, che vedeva innestate alla base la lanterna e sulla sommità la macina. L’oscillazione dell’asse verticale della macina era favorito dall’appoggio su cui ruotava: il pontesello, una robusta trave di legno sostenuta alle estremità, una delle quali regolabili per mezzo di una lunga vite a manovella. La variazione di spessore e peso della macina, provocata dalla continua rabbrigliatura (rifacimento delle incisioni interne del palmento), scaricata sull’inzignon imponeva il continuo abbassamento del pontesello: era in questa manovrabilità il segreto che assicurava alle macine di combaciare sempre perfettamente; quando si collocavano nuove macine al posto di quelle usurate il pontesello veniva innalzato.

Un documento già ricordato a proposito di Rovolon così sintetizza l’intero ingranaggio: “Sta incassato nel melo un disco o scudo di rovere cinto da una fascia ferro con cinquantasei denti di ferro acciaiato del peso complessivo di libbre centoquaranta … Li denti dello scudo ingranano in otto fusi o brazzole di ferro acciaiate di un rocchello od inzignone di ferro, appoggiato sopra mola o tagliola masegna sostenuta da pontesello di rovere, avente superiormente una navicchia di ferro portante la mola”, dove quest’ultima mola indica la macina girante.

Le macine

Se l’ingranaggio centrale era il cuore del mulino, le macine, o mole, ne erano l’anima. Il campionario di modelli, diametri, sagomature, materiali è così variegato e articolato che tentarne la schedatura è opera improba. Un dato comunque va tenuto presente per l’area padovana, collinare inclusa: la radicale trasformazione occorsa con l’avvento del granoturco nelle nostre campagne, cereale dal chicco ben più grosso del frumento, del sorgo, dell’avena, della segale, dell’orzo, del panico e del miglio, i tradizionali grani che per secoli hanno alleviato la cronica fame delle popolazioni cittadine e rurali. Una trasformazione collocabile alla fine del secolo XVI, una rivoluzione in grado di apportare una modifica strutturale alle dimensioni e alle scanalature delle macine, con il considerevole aumento dello spessore, del diametro e del peso, seguito dal contemporaneo adattamento delle strutture supportanti le mole stesse 22.

Grani diversi per macine diverse.

Grani diversi per macine diverse. Alla macinazione quasi esclusiva di grano e mais degli ultimi secoli, svolta con mole di notevole dimensione e qualità, si contrappose nel passato più lontano la produzione di farine ricavate anche da miglio, segale, orzo, avena, veccia, ecc., grazie all’impiego di macine più piccole di peso e di mole, in gran parte estratte dalle cave euganee.

Foto: Claudio Grandis.

Un avvento, questo del mais, che potrebbe in parte spiegare le diverse richieste avanzate nel corso del XVII e XVIII secolo alla magistratura veneziana dei Beni Inculti per l’ottenimento di nuove concessioni d’acqua, a fronte di una popolazione numericamente poco variabile e sovente decimata da pestilenze e frequenti carestie. Si potrebbe ricordare l’esempio del nobile Giacomo Cavalli che nella richiesta del 1753 di aggiungere una seconda ruota al suo mulino di Teolo, già segnalata in precedenza, evidenzia la contestuale disponibilità di mais e di acqua nel periodo autunno vernino, riconoscendo che l’inattività del mulino nella restante stagione primaverile ed estiva poteva ben accettarsi, data l’assenza di granoturco da macinare 23. Le difficoltà di conservare il mais raccolto fino a maggio e giugno dell’anno seguente erano infatti costante preoccupazione per tutti. I tecnici incaricati nel 1826 di estimare la produttività agraria per la tassazione censuaria, non a caso evidenziavano continuamente la cronica impossibilità di salvaguardare il mais dai bai, la tarma o tignola (Sitotroga cerealella Oliv.), oltre i mesi invernali visto che le primizie agricole stentavano a sfamare la popolazione rurale 24. In sintonia con questa preoccupazione del resto si colloca pure la perentoria richiesta dei proprietari terrieri, che nei contratti agrari con canone in natura impongono ai coltivatori la consegna di grano bon, bello, netto, secco et ben crivellato qualità basilari per assicurarsi la durata del prodotto fino al raccolto successivo.

Ma torniamo alle nostre macine per osservarle in dettaglio. Ogni mulino era dotato di una coppia di mole costituenti il così detto palmento. La mola inferiore, leggermente convessa sulla faccia operante, solidamente posata sulla struttura lignea soprastante l’ingranaggio era fissa e detta dormiente o giacente: al centro presentava un foro passante circolare all’interno del quale girava l’estremità dell’inzignon. L’altra macina, quella superiore, leggermente concava sulla superficie di lavoro, e detta girante, era calettata all’albero verticale e dallo stesso sostenuta e movimentata. Il calettamento avveniva grazie alla nicchia a forma di farfalla o doppio incastro a coda di rondine, incavata al centro della faccia interna, dentro alla quale s’inseriva la navicchia, detta in padovano naigia, o nottola in ferro anch’essa a forma di farfalla per potersi innestare adeguatamente.

Nicchia a forma di farfalla ricavata nella macina girante. Teolo, Mulino dei Ponteseli.

Teolo, Mulino dei Ponteseli, marzo 1995. La nicchia a forma di farfalla ricavata nella macina girante per allocare la navicchia dell’inzignon. Tra il foro circolare e la navicchia rimanevano due stretti spazi a mezzaluna, sufficienti per far passare il cereale da macinare dalla tramoggia all’interno del palmento.

Foto: Claudio Grandis.

Come la dormiente anche la macina superiore era forata, ma qui il foro svolgeva una funzione completamente diversa dal suo simile sottostante. L’apertura consentiva infatti l’introduzione del cereale d macinare, che veniva versato per mezzo del grande imbuto soprastante, la tramoggia o tramoza per dirla in padovano. Per assicurare un perfetto funzionamento libero da sbilanciamenti e una precisa rotazione, macine, fori, inzignon e lanterna erano tra loro coassiali, cioè il centro di fori e assi era perfettamente allineato ad un preciso e comune asse verticale. Nel 1771 Marco Fassadoni così riassunse tecnicamente il palmento: “La mola inferiore, e ch’è immobile, forma un cono, il cui rilievo dagli orli fino alla punta è di nove linee perpendicolari. La mola superiore, e girante, ne forma un altro in incavo, il cui affondamento è di un pollice; le due mole si guardano così dappresso, verso i margini o gli orli, che non vi è altra distanza, che quella che si ricerca per non toccarsi. Da queste misure così dilicamente prese, ne segue, che la distanza delle due mole va appoco appoco crescendo, e si trova in tre linee con alcuni punti di più verso il centro” 25.

L’impiego delle pietre per ricavare le macine subì in età moderna un radicale cambiamento. Gli inventari dei mulini fino al Cinquecento elencano in forma generica le macine − le mole del ditto molin, denunciano le stime contenute in documenti del XVI secolo − e non ne specificano i materiali, né l’eventuale presenza di cerchiature in ferro. Ma proprio a partire dallo stesso secolo si trovano regolarmente aggettivi che oltre a tradire la provenienza delle macine ne diventano l’attributo essenziale per la loro distinzione. “Le molle del ditto mollin, Recoare con li suoi cerchi”; “le molle del ditto mollin, una Bressana e una Recovara” recita una stima dei mulini di Tencarola stesa il 18 gennaio 1641 da Piero Terrassaro da Roncajette 26.

All’alba del secolo scorso a soffermarsi sulla qualità delle macine fu Luigi Arduino, che in una memoria presentata all’Accademia di Scienze Lettere ed Arti di Padova lamentò l’impiego indiscriminato di mole troppo usate 27. A detta dei mugnai consultati le migliori erano quelle estratte nel bresciano, dette per l’appunto Bressane, di color verdaccio, o Formentine o Brunette, se di color bigio e nei monti di Persen nel territorio trentino. Erano costituite da pietre molto dure, di grana convenientemente ruvida e assai pesanti, in grado di macinare con velocità e sottilmente. Di qualità inferiore invece quelle provenienti da Recoaro, le così dette Recoare o Recovare, da Tarcento, Tricesimo, Pedecastello, Soccher e Seren nel bellunese. Imperfette infine anche le mole estratte dalle rocce di Marostica, Posena e Piovene.

Molti palmenti di Padova e provincia erano detti bastardi perché costituiti dall’accoppiamento di verdacce o bressane, collocate nella posizione dormiente, con soprastanti macine Recoare. A detta dei mugnai una Bressana era in grado di consumare fino a dodici Recoare. L’errato accoppiamento era ovviamente tutto a scapito della qualità della farina che finiva per riempirsi di polvere. L’esatta combinazione era abbinare due macine Bressane, in grado di non inquinare, evitando così il formarsi della disgustosa farina “non di rado sabbiosa, che scroscia sotto ai denti di chi se ne ciba”, con le immaginabili conseguenze all’apparato dentario della clientela 28. L’Arduino nell’occasione lodava i mugnai vicentini che da alcuni anni usavano le Bressane e per le medesime ragioni i concittadini Bressan (curiosa coincidenza di un cognome originario dalla stessa provincia delle macine] e Genovese, gestori di mulini rispettivamente a Pontemolino e dietro all’ospedale. Quest’ultimo impianto, appartenente al monastero di Santa Giustina di Padova, otteneva il “pane d’una bellezza e d’una qualità affatto particolare; che per altro potrebbe riuscire ancor più saporito e più nutritivo, se fatta ne fosse una combinazione meglio ragionata della farina” 29.

Il passaggio dalle macine anonime alle Bressane e Recoare non fu indolore per le tasche dei proprietari: basta confrontare tra loro alcune stime di uno stesso mulino − galleggiante nello specifico − per rendersene conto. Il valore delle prime, pari a circa un decimo di quello degli scafi, sale dopo il secolo XVI a un terzo. A conferma della sostituzione delle pietre impiegate per le macine ci sovvengono pure i ritrovamenti avvenuti nel Bacchiglione, nei siti ove per molti secoli operarono mulini idraulici. Dall’acqua sono riemerse infatti soprattutto le mole in trachite euganea, con diametri e spessori decisamente inferiori alle dimensioni riportate dai tecnici Sette-Ottocenteschi. Del resto proprio costoro ricordano che le “mole bresciane e di Persen costano il triplo ed il quadruplo delle recoaresi” 30.

Per ben funzionare le macine dovevano essere perfettamente asciutte e costantemente affilate, aguzzae. L’operazione compiuta dal mugnaio consisteva nel rigenerare il filo delle scanalature, incise sugli specchi interni delle macine. L’operazione era tecnicamente denominata rabbrigliatura e si svolgeva con l’uso del picarello, della martellina, un piccone a doppia punta, e del mazzo a punta di diamante, attrezzi che ancor oggi si possono ritrovare presso le botteghe artigiane che lavorano manualmente la trachite euganea. A sua volta l’affilatura degli attrezzi veniva compiuta a bordo del mulino, ove di solito girava una piccola mola abrasiva, azionata da ingranaggi collegati all’asse della ruota idraulica o a mano: la mola de aguzzar cun el suo menaduro, recita una carta padovana 31.

Il delicato lavoro veniva ripetuto sovente e proprio nella qualità delle macine il mulino acquistava prestigio se è ben vero che un proverbio molinaro recita: “Alla macina si conosce il mugnaio”. Di norma le scanalature variavano da otto per il frumento, a dieci per il mais. La loro usura non era dovuta unicamente alla qualità delle macine: anche l’ininterrotta attività dell’impianto incideva pesantemente, se si pensa che nei periodi di maggior impiego macinava senza sosta giorno e notte.

Sulla preparazione delle macine va segnalato che queste venivano fornite ancora grezze, tanto che era il mugnaio stesso a rifinirle in relazione alla necessità di sostituire una dormiente o una girante e in funzione del senso di rotazione. Nel 1690 alcuni tagliapietra operanti nei pressi del porto padovano di Santa Maria in Vanzo, l’odierna via XX Settembre, interrogati in proposito dichiararono al notaio Francesco Bachi che le macine venivano scaricate dai natanti ancora grezze, senza il tracciato dei solchi e che era cura dei mugnai renderle operative, significando nel contempo che mai gli scalpellini si erano occupati delle macine e della loro preparazione. Una testimonianza preziosa, questa, che ci spiega l’irregolare profilo di alcune macine raffigurate a bordo di una zattera fluitante sulla Brenta, visibile in una nota incisione del vedutista veneziano Gianfrancesco Costa del XVIII secolo 32.

Ma se vogliamo fare un ulteriore passo indietro una doverosa sottolineatura meritano le cave di macine dei Colli. Senza riandare a troppi secoli or sono, dove le piccole macine manuali si ricavavano nelle priare di Monte Rosso e Monte Murale 33, va segnalata la cava in località Forche del Diavolo, a ridosso della Trattoria al Sasso, sulla strada che da Castelnuovo conduce a Ronco e Boccon, a monte della maggiore concentrazione di mulini riscontrata in tutto il rilievo euganeo. Qui giacciono ancora, deposte tra una selva di robinie che nella stagione della fioritura ne impedisce una libera visione, due macine abbozzate del diametro di circa centoventi centimetri e dello spessore di alcune decine, una delle quali spezzata trasversalmente. Per la posizione geografica in cui si collocano e per la manifesta funzione dell’area, indubitabilmente usata per estrarre sasso trachitico senza l’uso di attrezzi sofisticati, si può sostenere che il piazzale sia stato in passato una cava specializzata nella produzione di macine, destinate sia ai clienti locali, gestori di mulini a coppedello, sia, almeno fino al secolo XVI inoltrato, ai mugnai dei fiumi perenni così come degli impianti terragni di pianura. Oscure, tuttavia, restano le ragioni della conservazione di questi pezzi unici, se pensiamo all’intensa estrazione cui sono state sottoposte le pendici euganee tra la fine del secondo conflitto mondiale e l’entrata in vigore della legge Fracanzani-Romanato, capace solo nel 1971 di mettere ordine alla sconsiderata attività estrattiva 34.

Alcuni dati, rilevati nel secolo scorso, ci permettono infine di conoscere con una certa precisione il numero di giri. Macine con diametro di 130 centimetri compivano in media 120 giri al minuto; di conseguenza a fronte di un rapporto tra scudo e inzignon di uno a sei, la ruota esterna compiva venti rotazioni al minuto. L’assetto dinamico del molino si poteva pertanto suddividere meccanicamente in due parti: le ruote potenza, cioè quelle in grado di originare il moto, chiamate anche operanti; le ruote di resistenza o resistenti le altre mosse per mezzo degli ingranaggi. L’ingegnere milanese Giovanni Cadolini in proposito scriveva “nei mulini semplici va considerato come ruota di potenza lo scudo, e come ruota di resistenza la lanterna” 35. Tramoggia e altre parti come le banchette, le scalette, per salire sul mezale e caricare la tramoggia, e il casson per riporre grani e farine completavano l’articolata macchina idraulica del nostro mulino.

Colli Berici, anni '80. Interno di un mulino a coppedello.

Colli Berici, anni ’80. Interno di un mulino a coppedello. L’immagine seppur foresta rende l’atmosfera e l’ambiente interno dei nostri mulini.

Sottrar l’acqua ai mulini è contro le leggi

Michele Priuli, membro di spicco dell’aristocrazia veneziana, con l’espressione “sottrar l’acqua ai mulini è contro le leggi” nel 1535 ricordava ai suoi conterranei, abituati a ricevere farina già macinata e pronta per i forni della capitale, la necessità di assicurare l’energia vitale al funzionamento di ogni mulino e di tutelare con apposite leggi il prezioso bene pubblico 36. Se fin qui abbiamo esaminato la parte meccanica della “macchina molitoria” è doveroso non dimenticare che la presenza del mulino idraulico resta indissolubilmente legata alla disponibilità e all’utilizzo delle acque naturali del territorio. Lo sfruttamento energetico di una risorsa tanto importante comportava inevitabilmente il ricorso all’autorità statale. Nell’Alto Medioevo fu l’imperatore il padrone riconosciuto delle acque: era lui che ne concedeva l’uso ad autorità locali o a propri vassalli. Il potere esercitato sull’acqua mutava gli antichi dettami del diritto romano, che riconoscevano invece nell’acqua un bene pubblico di cui tutti potevano disporre a condizione che non fossero alterati alvei, rive e argini e non si costruissero ostacoli alla navigazione.

Dalla teoria del diritto romano della “proprietà e dell’uso del popolo sulla cosa pubblica, si originò quella feudale della proprietà personale del principe, il quale dona, vende, cede a tempo od in perpetuo le cose sue; e da questa poi, per successiva evoluzione, si formò la teoria nuova, per la quale al sovrano è affidato l’esercizio del diritto di proprietà e quindi l’obbligo della tutela, mentre si riconosce spettare l’uso della cosa pubblica al popolo, sebbene in forza di concessioni sovrane” 37. Barche e mulini privi di licenza imperiale non potevano pertanto navigare e macinare. Il caso di Padova non è dissimile da tanti altri studiati per aree geografiche sia vicine che lontane. La giurisdizione sulle acque che animavano le ruote idrauliche apparteneva all’imperatore, il quale oltre a rilasciare le concessioni si preoccupava pure di confermare di volta in volta precedenti assensi di costruzione e d’uso. Quando questo potere venne delegato vi subentrò l’autorità locale sotto forma di vescovi, abati o clan feudatari.

All’avvento del Comune cittadino il controllo, il potere sulle acque venne strappato agli antichi possessori. Nel padovano al tramonto dell’esperienza comunale, la signoria carrarese prima e la Repubblica di Venezia poi, si preoccuparono di rinnovare, concedere e confermare gli antichi diritti, tentando più volte, senza per altro riuscirci appieno, di riordinare la congerie di titoli e diritti sedimentatasi nei secoli precedenti. L’età contemporanea registra poi il passaggio delle acque dalla sovranità veneziana rispettivamente a quella napoleonica e austriaca, per finire definitivamente nel patrimonio demaniale italiano con l’annessione del Veneto del 1866.

L’esperienza comunale è per le acque padovane sicuramente la più viva. Nel corso di poco più di un secolo il dominio sulle acque consente a Padova di inanellare chilometri e chilometri di nuovi corsi d’acqua: dal canale Battaglia iniziato nel 1189, al Piovego scavato nel 1210 al Brentella completato nel 1314, senza contare gli altri aperti dentro e fuori le mura e in tutta l’Alta e Bassa pianura, di cui non è rimasta traccia scritta ma un eloquente sviluppo di alvei rettilinei. Battaglia e Brentella sono direttamente collegati all’attività molitoria; il primo diventa infatti la centrale energetica delle oltre trenta ruote distribuite tra Bassanello e Monselice, il secondo invece assume la funzione di gruppo di continuità per gli opifici cittadini immobilizzati dalla sottrazione d’acqua operata dai vicentini sul Bacchiglione con la deviazione di Longare, ogni qualvolta la guerra fratricida fra padovani e vicentini fa capolino all’orizzonte 38.

La fortuna dei mulini si gioca sullo scacchiere del bacino idrico padovano, sicuramente uno dei più ricchi della pianura veneta. Le mosse di barcaioli e proprietari spesso mirano alla rimozione degli impianti ostacolanti la navigazione o il regolare deflusso nei periodi di piena. L’autorità locale, più di quella centrale, sembra attenta al gioco e manifesta una singolare tempestività nell’intervenire sino a quando l’interesse collettivo rimarrà un valore, oltre che un bene, da difendere contro ogni sopruso. La testimonianza viva della volontà comunale è rimasta negli Statuti redatti tra la fine del XII secolo e il 1285, più volte riconfermati e rimasti praticamente in vigore fino al 1798 39. Se alcuni di essi subirono inevitabili adattamenti al mutare delle condizioni politiche e sociali, altri invece costituirono per secoli il caposaldo di un codice comportamentale estremamente efficace. Del resto, e non a caso, il comune padovano si preoccupò di normare le modalità d’intervento per mantenere in efficienza corsi d’acqua di varia natura; di garantire il regolare deflusso assegnando a città minori, villaggi e microabitati l’obbligo di provvedere ad una costante manutenzione di alvei e rive. Diversamente sarebbero bastate poche piene e qualche inondazione per rompere il delicato equilibrio di una ragnatela idraulica veramente unica nel suo genere.

Tra le concessioni d’acqua rilasciate dal comune di Padova meritano menzione quelle a favore dei neonati monasteri di S. Maria in Vanzo e S. Maria di Porciglia, avvenute rispettivamente nel 1220 e 1223, nonché al vetusto cenobio di S. Giustina, risalente al 1230 40. Queste tre concessioni, tra le più antiche finora conosciute nella storia comunale, sembrano seguire modalità diverse. Se per il monastero di Vanzo l’erogazione dell’acqua fu subordinata ad una serie di prescrizioni, all’ottenimento del parere favorevole di tecnici specializzati e all’obbligo di non sottrarre energia ai mulini comunali di Torricelle e Fistomba, per il cenobio di Porciglia la concessione si limitò, come per Vanzo, a definire l’entità della portata, commisurata alle dimensioni dell’apertura eseguita sull’alveo del Piovego per alimentare il rivolo d’acqua. Medesima prescrizione venne imposta a S. Giustina, ma il buso sull’arginatura che fiancheggia Santa Croce fu in questo caso ben più ampio: un foro quadro di tre piedi per lato, pari a circa un metro attuale, da mantenere sempre in perfetta efficienza e guardato a vista per scoraggiare possibili manomissioni.

Il rigore che accompagna il rilascio delle tre concessioni è indice di una viva preoccupazione del governo comunale verso la navigazione e i propri mulini, assi portanti di un’economia in effettiva crescita qualitativa e quantitativa. Non a caso, nel momento in cui venne meno una delle due condizioni, eccolo intervenire con una permuta e offrire al monastero di S. Maria di Porciglia una posta a ridosso del ponte Pidocchioso (odierno incrocio delle vie Falloppio − Giustiniani − Ospedale Civile − S. Massimo), pur di ottenere la demolizione dell’impianto costruito nel 1220 nelle acque del Piovego 41.

Si è detto che gli Statuti comunali, seppur revisionati durante le successive dominazioni, rimangono fino a tutto il XVIII secolo la principale fonte normativa in materia di concessioni idrauliche, sicchè l’istituzione di nuove magistrature venete, a partire soprattutto dal XVI secolo, accentua ancor più la volontà governativa di una maggiore attenzione nella gestione dei corsi d’acqua, senza tuttavia rivedere o ridiscutere le antiche consuetudini che di fatto vengono riconfermate ai legittimi proprietari. L’acqua dei fiumi perenni, controllata ora dall’autorità veneziana, continua ad alimentare mulini e folli di vario genere mentre le poste molitorie concesse in età medioevale mantengono intatta la loro posizione giuridica, anche se gli opifici, per tempi più o meno lunghi, rimangono inattivi.

La produzione legislativa in materia di grandi fiumi, ben condensata nel celebre Sommario di Giulio Rompiasio edito a Venezia nel 1733 42, tradisce la preoccupazione di non intaccare gli antichi privilegi e le vetuste concessioni rilasciate agli enti ecclesiastici e ai laici, transitate, in molti casi, nelle mani dell’aristocrazia lagunare. Per rendersene conto è sufficiente il raffronto tra i proprietari dei palmenti di Pontemolino, lungo le mura medievali di Padova, desumibili dalla documentazione medioevale e dagli estimi del XV secolo, con quelli registrati da Pietro Brandolese: nel 1753 su ventisei ruote attive, la metà esatta appartiene al patriziato veneziano (Venier, Malipiero, Gradenigo, Bragadin, Contarini, Tron e Priuli) mentre sette sono controllate dal clero, secolare e regolare, e le rimanenti sei da famiglie dell’aristocrazia padovana 43.

Nell’area euganea se si esclude la presenza degli enti religiosi, rappresentati ad Abano dal monastero di San Daniele e a Torreglia dal monastero di Santa Giustina, quest’ultimo titolare di una quota parte solo dal tardo Cinquecento, la restante ripartizione della proprietà degli impianti non si sposta percentualmente di molto rispetto alla città e alla provincia. Nella seconda metà del Settecento su ventidue mulini in funzione, nove appartengono a nobili veneziani, una dozzina sono detenuti da famiglie padovane e uno è controllato dal clero regolare.

Tornando alla gestione veneziana va rilevato come i Provveditori sopra Beni Inculti, nell’oculato controllo riservato al territorio padovano, non andarono oltre una ratifica delle antiche investiture delle poste molitorie, atteso il formale riconoscimento operato nei confronti dei diligenti proprietari pronti a produrre all’avvocato fiscale del Magistrato carte, attestati e copie notarili, così da rispettare il dettato delle parti (deliberazioni) assunte dal Senato a partire dal 1560, reiterate il 29 luglio e il 24 settembre 1665 e ancora nel 1682 e nel 1725 44. Il controllo governativo, favorevole all’installazione di alcuni nuovi impianti, di fatto mantenne inalterata la capillare diffusione dei mulini avvenuta nel territorio tra X e XIII secolo. Fiumi perenni, canali artificiali, fosse e corsi diversi pur costituendo un bene demaniale appaiono in realtà patrimonio di privati in grado di sfruttarne l’energia e di far prevalere il proprio interesse su quello della collettività, nel continuo alternarsi di interessi privati e pubblici, personali e collettivi, economici e sociali. Venezia avrà anche la forza di far scalzare ruote e macine dai canali navigabili attraverso le decisioni dei Consorzi di Bonifica impegnati nel Basso Padovano, allorquando l’inconciliabilità dei due farà pendere l’ago della bilancia verso barche, barcaioli e sicurezza idraulica dell’area pedecollinare; o quando, come nel caso del Brenta, apparirà in tutta la sua gravità il danno dei continui allagamenti provocati dalle acque imbrigliate verso la foce dalle pescaie dei mulini galleggianti.

Bisognerà attendere il governo dell’Italia Unita per rivedere sancito il pubblico interesse e soprattutto la pubblica utilità. La decisione presa nel 1914 di spiantare dalle fondamenta tutti gli impianti rei di bloccare il regolare deflusso delle acque del Bacchiglione, nelle stagioni di piena, se comportò l’esborso di un cospicuo capitale per le finanze sabaude, dall’altro sancì in modo inequivocabile il supremo diritto dello Stato su un bene spesso lasciato in balìa di un ceto imprenditoriale miope quand’anche privo di scrupoli. Del resto la norma che stabilì la prescrizione estintiva del diritto d’uso sopra un corso d’acqua pubblica, ottenuto per effetto di antiche concessioni, trascorsi trenta anni dall’entrata in vigore del Codice Civile del 1865, costituisce l’esempio più concreto dell’innovativa volontà statale 45.

Claudio Grandis

Bibliografia, abbreviazioni.

Note

20 GLORIA 1862, IV, doc. III, p. 19-21.
21 FABRIS, p. 194. Dall’esame della terminologia tecnica si ha l’impressione che la contrazione delle ruote, da 35 a 26, avvenuta sul finire del Medioevo, abbia comportato una radicale modifica alle strutture di condottamento delle acque: non si spiega diversamente la scomparsa di vocaboli quali, ad esempio, antipetto, delfino e mantelletto, e l’avvento di cunella e smergone.
22 Sull’introduzione del mais nelle campagne venete rinvio al lavoro di FASSINA, p. 31-59, attesa l’assenza di puntuali indagini sull’area padovana. Sempre utile comunque è MESSEDAGLIA, p. 27-29, 75, 86-88, 101.
23 Vedi nota 27.
24 Censo provvisorio. Atti, b. 36, fasc. 193-200; b. 38, fasc. 201-203, 208, 209; b. 42, fasc. 222, 223, 226, 227. Senza dimenticare gli altri insetti divoratori di grani, come il tenebrione mugnaio, insediato in prossimità dei mulini e specialmente nella farina.
25 GRISELINI-FASSADONI, IX, p. 138.
26 A.S.P. Praglia, f. 117, c. 184. Generiche descrizioni si trovano ad esempio nelle stime del mulino di Vo’ del 1556 e 1557 (A.N. 2982, c. 247-248).
27 ARDUINO, p. 172-183.
28 Ibidem, p. 180.
29 Ibidem, p. 179.
30 CADOLINI, p. 319.
31 A.S.P. Praglia, f. 116, c. 82 (Stima del 29 dicembre 1540).
32 A.N. 5982, c. 637-638. Che le macine venissero sbarcate nella zona lo ricorda anche una nota spese del 25 febbraio 1546: “Item spixi per far condur la mola e cargarla a Santa Maria de Vanzo e condurla” a Pontemolino (A.S.P. S. Stefano, b. 51, mazzo 261, fasc. num. 9).
33 I dati sono emersi dalla relazione di L. Lazzarini e D. Dolfi, presentata al simposio Il grano e le macine (Castel Tirolo 6-9 ott. 1993), titolata Protohistoric millstones from Cispadania (ltaly): characterisation and provenance of their lithotypes.
34 Le colline senza pace, a cura dei Comitati per la Difesa dei Colli Euganei, Padova 1970; Salvare i Colli Euganei, Abano Terme-Teolo-Torreglia (Azienda Autonoma di Cura Soggiorno Turismo) 1971.
35 CADOLINI, p. 71-72.
36 B.I., reg. 550, c. 81 (Citato in CIRIACONO, p. 58, nota 106).
37 MAZZA, p. 11; LUGARESI, p. 21-26.
38 SIMIONI, p. 367-373.
39 GLORIA Statuti, IV, poste 886-907, p. 300-303.
40 SAMBIN, p. 169-180; MITTARELLI-COSTADONI, p. 261; GENNARI, p. 71-72; BRUNACCI, c. 1965 e GLORIA Statuti, IV posta 1366 p. 426, posta 1365 p. 424-425.
41 L’episodio conferma l’instabilità di tanti impianti nella vorticosa crescita demografica che Padova conobbe per tutto il periodo comunale compreso tra la seconda metà del sec. XII e gli inizi del XIV. Casi di installazione e successiva rimozione sono presenti anche lungo tutta la fascia sud-occidentale dei Colli, tra Monselice e Vo’, tanto che risulta difficoltoso stilare un puntuale censimento di tutti i mulini esistiti fino alla caduta della signoria carrarese (1405). A.S.P. Diplomatico, 2594-2597.
42 ROMPIASIO, p. 470-474.
43 ROMPIASIO, p. 351-352. Si veda pure il rilievo eseguito dal perito Pietro Brandolese il cui disegno è in S.E.A., dis. rot. 34 e l’elenco in A.N. 7135b, c. 45 (primo fascicolo).
44 Catastico; B.I. Pr., b. 15, fasc. “Bresciani Domenico” (1725); b. 23 fasc. “Contarini Nicolò” (1682).
45 DIONISOTTI, p. 29-50 e 363-364; MAZZA, p.13-15 e 553; BAGNULO, p.120; LUGARESI, p. 21-34. Sulle sistemazioni idrauliche dei torrenti rinvio a DA DEPPO / DATEI, p. 195-290.

Bibliografia relativa al Capitolo II

G. ANDREOTTI, I mulini natanti del Po: annotazioni di archeologia industriale, Padova (Pubblicazioni dell ‘Istituto di Geografia) 1981.

L. ARCHIEO, Luoghi della memoria, Vigodarzere 1995.

L. ARDUINO, Considerazioni generali sull’arte di macinare, e sopra le qualità e gli effetti delle nostre mole, “Memorie dell’Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Padova”, 1809 p. 172-183.

R. BAGNULO, Le acque pubbliche nella giurisprudenza, Padova 1973.

Battaglia Terme. Originalità e passato di un paese del padovano, a cura di P.G. ZANETTI, Battaglia T. 1989.

G. BEGGIO, I mulini natanti dell’Adige. Saggio termino logico con notazioni storico-folkloristiche, Firenze 1969, ristampato in G. BEGGIO, Florilegio degli scritti, presentato da C. CORRAIN e A.G. STEVANIN, Badia Polesine 1989, p. 263-314.

S. BORTOLAMI, Acque, mulini e folloni nella formazione del paesaggio urbano medievale (secoli XIXIV): l’esempio di Padova, in Paesaggi urbani dell ‘Italia padana nei secoli VIII-XIV, premessa di R. COMBA, Bologna 1988, p. 263-312.

H.T. BROWN, 500 meccanismi scelti tra i più importanti e recenti riferentesi alla dinamica, idraulica, idrostatica, pneumatica, macchine-vapore, molini, torchi, orologeria ed altre diverse macchine, Milano 1893.

G. CADOLINI, L’architettura pratica dei mulini trattata con metodi semplici ed elementari, desunti dal Newmann e dall’Eytelwein, Milano 1835.

S. CIRIACONO, Acque e agricoltura. Venezia, l’Olanda e la bonifica europea in età moderna, Milano 19962.

Ricordi sui Colli Euganei, illustrazione storico e artistiche con appendice di notizie statistiche, geologiche, igieniche, ecc., Padova 1842.

G.F. CRISTIANI, Della inalveazione e del regolamento del fiume Brenta, Milano 1795.

L. DA DEPPO – C. DATEI – P. SALANDIN, Sistemazione dei corsi d’acqua, Padova 19972.

C. DIONISOTTI, Delle servitù delle acque secondo il codice civile italiano, Torino 18722.

G. FABRIS, La cronaca di Giovanni da Nono, “Bollettino del Museo Civico di Padova” a. XXV (1932), p. 1-33; a. XXVI (1933), p. 167-200; a. XXVII-XXVIII (1934-39), p. 1-30.

M. FASSINA, L’introduzione della coltura del mais nelle campagne venete, “Società e storia”, 15, p. 31-59.

C. FERRARI, L’ufficio della sanità di Padova nella prima metà del secolo XVII, Venezia 1909.

C. GASPAROTTO, S. Maria del Carmine di Padova, Padova 1955.

G. GENNARI, Dell’antico corso de’ fiumi in Padova e ne’ suoi contorni e de’ cambiamenti seguiti con altre curiose notizie, e un saggio della legislazione de’ padovani sopra questa materia, Padova 1776.

A. GLORIA, Il territorio padovano illustrato, I-IV Padova 1862.

Statuti del comune di Padova dal secolo XII all’anno 1285, a cura di A. GLORIA, Padova 1873.

GRISELINI-FASSADONI, Dizionario delle arti e de’ mestieri, Venezia 1771, tomo IX.

L. LAZZARINI – D. DOLFI, Protohistoric millstones from Cispadania (Italy): characterisation and provenance of their lithotypes, relazione presentata al simposio Il grano e le macine, Castel Tirolo 6-9 otto 1993.

Le colline senza pace, a cura dei Comitati per la difesa dei Colli Euganei, Padova 1970.

N. LUGARESI, Le acque pubbliche. Profili dominicali, di tutela e di gestione, Milano 1995.

A. MARCHINI, Elementi di macchine idrauliche e termiche, Bologna 19712.

A. MAZZA, Dei diritti sulle acque, Roma 1913.

A. MAZZETTI, I nomi della terra. Toponomastica dei colli Euganei, Verona 1999.

L. MESSEDAGLIA, Notizie storiche sul mais. Una gloria veneta. Saggio di storia agraria, estratto dal “Quaderno mensile dell’Ist. Fed. di Credito per il Risorgimento delle Venezie” a. III (lug. 1924), num. 7.

I. B. MITTARELLI – A. COSTADONI, Annales camaldulenses, Venezia 1759.

G. ROMPIASIO, Metodo in pratica di sommario o sia compilazione delle leggi, terminazioni & ordini appartenenti agl’illustrizzimi & eccellentissimi Collegio e Magistrato alle Acque, Venezia 1733, riedizione critica a cura di G. CANIATO, Venezia 1988.

P. SAMBIN, Statuti padovani inediti. I. Concessione d’acqua al monastero di S. Maria in Vanzo (1220), “Memorie dell’Accademia Patavina di SS.LL.AA. − Classe Sc. Morali, Lettere ed Arti”, voI. LXX (1957-58).

G. SEBESTA, La via dei mulini. Dall’esperienza della mietitura all’arte di macinare, S. Michele all’Adige 19972.

SIBER MILLOT, L’industria dei molini. Costruzione – Impianti Macinazione, Milano 1897.

C. SIMONI, Il mulino, in Progetto Techne. Culture e strumenti del lavoro. La ruota idraulica, Brescia 1989.

Terme d’Abano, a cura di T. MERLIN e F. SELMIN, Abano T. 1993.

Vecchie immagini di Torreglia, a cura di G. FRACCARO PROSDOCIMI, Torreglia 1987.

V. ZONCA, Novo teatro di machine et edificii, Padova 1607 (rist. anastat. con premessa e note a cura di C. PONI, Milano 1985).

Fonti inedite relative al Capitolo II

A.G.C.P.
Archivio del Genio Civile − Padova.

A.N.
Archivio di Stato − Padova, Archivio Notarile.

Arsenale
Archivio di Stato − Venezia, Patroni, Provveditori, Inquisitori all’arsenal e Visdomini alla Tana, reg. 619 “Catastico dei mulini di Padova e Treviso – 1687-1697”.

A.S.P. Diplomatico
Archivio di Stato − Padova, Archivio Diplomatico.

AS.P. Finanza
Archivio di Stato − Padova, Intendenza provinciale di Finanza. Serie II^.

AS.P. Miscellanea Q
Archivio di Stato − Padova, Miscellanea civile.

A.S.P. Praglia
Archivio di Stato − Padova, Corporazioni religiose soppresse – monasteri del territorio, S. Maria di Praglia.

A.S.P. S. Giovanni
Archivio di Stato − Padova, Corporazioni religiose soppresse – monasteri della città, S. Giovanni da Verdara.

B.C.P. Statuti mugnai
Biblioteca Civica di Padova, Statuti della fraglia dei mugnai, manoscritto BP 955 (sec. XV-XVIII).

B.I.
Archivio di Stato − Venezia, Provveditori sopra Beni Inculti.

B.I. Inv.
Archivio di Stato − Venezia, Provveditori sopra Beni Inculti. Investiture.

B.I. Pr.
Archivio Stato − Venezia, Provveditori sopra Beni Inculti. Processi.

Catastico
Archivio di Stato − Venezia, Provveditori sopra Beni Inculti. “Catastico delle investiture Padova, Polesine, Treviso, Belluno, Friuli”.

Censo provvisorio. Atti
Archivio di Stato − Venezia, Censo provvisorio (c.d. Catasto austriaco). Atti preparatori.

Estimo 1575
Archivio di Stato − Padova, Estimo del 1575.

S.E.A.
Archivio di Stato − Padova, Savi ed Esecutori alle Acque.

I mulini ad acqua dei Colli Euganei, copertina.

Claudio Grandis, I mulini ad acqua dei Colli Euganei, Este, Parco Regionale dei Colli Euganei, 2001 – pagine 18-42 (Capitolo II).

Sono state qui inserite alcune immagini pubblicate nel Capitolo IV del libro ed è stata aggiunta la foto del porto di Battaglia.