Andar per acque: da Battaglia a Rivella

I patti colonici
Sino all’ultima Guerra Mondiale i fondi rustici della “Padovana Provincia” erano variamente condotti: in economia diretta, quando il proprietario del fondo (parón) conduceva egli stesso l’azienda; in affitto o a colonia, quando concedeva il capitale fondiario ad altri mediante un particolare contratto o patto. Dal dopoguerra in poi varie leggi hanno favorito il coltivatore attraverso il diritto di prelazione, l’equo canone, l’accesso a prestiti a tasso agevolato, nonché attraverso esenzioni o agevolazioni fiscali, la modifica e l’abolizione della mezzadria e delle regalie. Le varie forme di conduzione perciò sono quasi tutte confluite nella conduzione “diretta a coltivatore”, cioè senza manodopera dipendente, con l’eventuale utilizzo di contoterzisti. Nel corso di qualche decennio l’agricoltura ha registrato una sorta di rivoluzione non solo tecnologica, ma anche economica. Solo per citare un data, la percentuale nel Padovano di persone dedite all’attività primaria rispetto alla popolazione attiva e passata da 44,7% del 1951 all’attuale esiguo dato del 4,3 %.

Portico di una casa rurale a Este. Foto degli anni ’70 del 1900.

Portico di una casa rurale ad Este (anni ’70 del ‘900)
(“La casa rurale nel Padovano”, E. Bandelloni – 1973)

Tornando al passato, la conduzione diretta poteva essere con o senza salariati. I piccoli fondi erano coltivati dalla famiglia contadina, mentre le campagne più estese, specie se comprendenti ampie stalle, richiedevano lavoratori esterni: i salariati fissi (
boattieri e boari), i braccianti obbligati e quelli avventizi. Agli obbligati, unitamente ai fissi, l’agricoltore garantiva alloggio e un piccolo appezzamento ad uso esclusivo (casale), una certa quantità di legna da ardere, mosto e cereali, oltre al lavoro per un periodo minimo all’anno, in cambia di disponibilità in caso di necessità dell’azienda. I braccianti avventizi o giornalieri venivano chiamati giorno per giorno, specie nei periodi di raccolta, semina o di potatura. Oltre a queste figure professionali, potevano esserci anche i cottimisti (es. scariolanti) adatti ai lavori di poca cura, come nel caso degli scavi a espurghi dei fossi. Nelle grandi aziende a coordinare e sorvegliare i braccianti, il padrone poteva incaricare una persona di sua fiducia, chiamato gastaldo o castaldo.
Un’altra forma di conduzione aziendale molto diffusa era l’affitto che poteva essere a coltivatore (piccolo affitto) o a conduttore (grande affitto); in quest’ultimo caso il fondo era costituito da almeno 30-40 ettari e il conduttore ricorreva ai braccianti. La durata del contratto d’affitto poteva variare, ma sempre conteneva la famosa clausola capestro per il conduttore, “a fogo e fiama” (a fuoco e fiamma o “a rose e spine”, “a scosso e non scosso”); ciò significava che il canone doveva essere pagato comunque, anche in caso di incendio, alluvione e
gragnuola (grandine)! Il padrone concedente riceveva il canone in denaro o piu spesso “a generi”, cioè mediante determinate quantità di cereali e di altri prodotti. Anche quando il fitto era pagato in moneta, il contratto o la consuetudine prevedevano le “onoranze” (regalie o “appendizi”): un certo numero di polli e capponi, uova, salami, ecc. ogni anno.
La terza forma di conduzione, a dire il vero non molto frequente nella Bassa padovana rispetto ad altri ambiti territoriali, era la colonia o a
partizione che ricorda i mansi dell’età Carolingia. Comprendeva vari tipi di contratto che imponevano la ripartizione delle spese e dei prodotti tra il proprietario-concedente e il colono-coltivatore, come in una sorta di società o co-impresa. Tra le varie colonie la mezzadria o massarìa era di gran lunga la più comune; all’origine essa consisteva nella suddivisione a metà dei prodotti e delle spese, riparto modificato da varie leggi degli anni ’60 e ’70 del ‘900. I fondi dati in questa forma di patto colonico dovevano essere dotati di abitazione e proporzionati alla capacità lavorativa della famiglia colonica, tenuto conto dei mezzi a disposizione e dell’indirizzo produttivo, quasi sempre di tipo cerealicolo-zootecnico-viticolo; una famiglia mezzadrile poteva coltivare fondi con giacitura in piano sino ad un massimo di una settantina di campi padovani (campo = 3862,57 mq). Eventuali braccianti esterni venivano pagati dal massariotto (mezzadro). Il contratto di norma durava due o più anni; l’inizio di questo contratto e anche dell’affitto doveva rispettare l’annata agraria, non quella solare. Era normalmente fissato il giorno di san Martino (11 novembre), però non era raro l’accordo su altri giorni, come quello di santa Giustina (7 ottobre) e di tutti i santi (1 novembre); per quanto atteneva la stalla il giorno preferito era quello di sant’Antonio (13 giugno) mentre il 25 marzo veniva lasciato il terreno a disposizione del nuovo colono per le semine primaverili.
Il paesaggio di bonifica
Nella cartina, le acque che scorrono nel tratto che va da Battaglia Terme a Monselice.
Chi percorre la Riviera Euganea a terra, o meglio ancora la vede dall’alto, si accorge che i campi mutano il loro aspetto da un luogo ad un altro e da un lato all’altro del naviglio: da una parte c’è la campagna di antica colonizzazione, come a Pernumia, plasmata dall’uomo soprattutto in epoca medievale e caratterizzata dalla sinuosità dei corsi d’acqua di origine naturale; dall’altra quella di relativa recente bonifica, come a Battaglia (Ferro di Cavallo, v. 6. tav.12), a Monselice e a Lozzo. Quest’ultimo tipo di paesaggio, che si trova in gran parte sulla sinistra idraulica del Bisatto e del canale Monselice, presenta affossature e campi di ampia pezzatura e di forma regolare, una geometrica maglia nata integralmente da un disegno unitario e da interventi sistematici dell’uomo, quindi totalmente ‘artificiale’. A partire dalla seconda metà del ‘500, infatti, l’area pericollinare è stata oggetto di importanti lavori di bonifica (il termine deriva dal latino “bonum facere”): vengono scavati ex novo i cavi di scolo, come canali, fossi e scoli, per evitare il ristagno dell’acqua pluviale e rendere coltivabili terreni altrimenti incolti. La forma e le dimensioni dei campi, piuttosto lunghi, con una lieve convessità (baulatura) e privi dei tipici filari di viti, creano un paesaggio semplificato rispetto a quello tradizionale; in altri termini in queste zone sono state realizzate particolari sistemazioni idraulico-agrarie, oggi chiamate alla ferrarese, dove il seminativo non lascia spazio alla coltura promiscua tipica delle tradizionali piantate (v. scheda Le tradizionali forme della campagna).
Prima di queste immani opere, il territorio era costellato di stagni, paludi, acquitrini (terreni periodicamente sommersi) e di terreni sortumosi che l’acqua, stagnante appena sotto la superficie, rendeva asfittici ed improduttivi. Proprio per questa ragione si incontrano spesso vari toponimi come “valli”, riferiti a suoli a quota bassa, e “acque nere” per indicare acque stagnanti o a difficile deflusso che si contrappongono alle “acque bianche” dei fiumi. Queste terre, chiamate correntemente
cuorose o idromorfe dai pedologi, spesso sono caratterizzate da un colore scuro, in luogo delle comuni tonalità brunastre, per la forte presenza di torba e forse da questa loro caratteristica cromatica ha origine il nome.
Durante e subito dopo l’ultima guerra, per carenza di legna da ardere, gli abitanti di questa zona e di altre circostanti si recavano a Rivella e al lago di Arquà per raccogliere dai campi la torba da utilizzare come combustibile domestico. La presenza nel terreno di materia organica, non del tutto decomposta, testimonia che l’area ha sofferto per milioni di anni del ristagno d’acqua, fenomeno che ha creato un ambiente asfittico, adatto alla formazione della torba dai residui forestali ivi accumulatisi.
Le tradizionali forme della campagna padovana
È diventato difficile trovare ancora qualche angolo tipico della campagna padovana di un tempo. Oggi si tende a sostituire le affossature (fossi, scoline e solchi acquai) con tubi drenanti sotterranei e ad eliminare i filari alberati frammisti al seminativo, per guadagnare qualche metro in più di superficie, allo scopo di rendere agevole il movimento delle sempre più ingombranti macchine agricole. Ma con un po’ di pazienza, nella zona posta ad est del Naviglio Euganeo, si scoprono ancora relitti delle tradizionali forme della campagna padovana (genericamente indicate come “piantata padana”), che rientrano ormai nell’archeologia agraria. La loro tutela pero e ancora tutta da mettere in atto.
La campagna padovana è caratterizzata da una propria sistemazione idraulico-agraria, chiamata “a cavini” o anche “alla padovana”. Si compone di appezzamenti di terreno arato, le cavedagne chiamate appunto “cavini”, e di liste di terreno erboso alberato (
postiglie) che si alternano con l’arativo. Negli “estimi” e nei catasti storici era indicata come terreno “arato, piantato e videgato”, al catasto attuale e qualificata come “seminativo erborato”. Gli appezzamenti a seminativo (in rotazione tipica: frumento, erba medica, granoturco) sono lunghi 85-95 metri, larghi 35-45, mentre la striscia alberata, larga 3-5 metri, è costituita da un filare di vite sostenuto da tutori vivi come l’òpio (acero campestre), olmo, noce, susino, pioppo o gelso. In mancanza di fili di ferro, i tralci vengono legati gli uni agli altri formando un sorta di festone da un albero all’altro, le tirèle. I campi arati, e qui sta la peculiarità dell’assetto “alla padovana”, presentano una baulatura (convessità per lo sgrondo dell’acqua piovana) rovescia rispetto alle altre sistemazioni di pianura: la linea di colmo è trasversale al lato più lungo, non longitudinale. Le due falde scolanti quindi sono particolarmente lunghe e convogliano l’acqua verso i cavìni, strade campestri inerbite che fungono da fossa di prima raccolta dell’acqua superficiale. Il dislivello tra il colmo e le testate dei campi può raggiungere in certi casi 1,8-2 metri, tanto che in piedi sul cavino a volte l’osservatore non riesce a vedere l’altra estremità del campo. Questa sistemazione, che presenta tra l’altro il difetto di bagnare la strada campestre e quindi di rendere difficoltoso il transito dei carri, è stata escogitata per tenere all’asciutto almeno una parte del terreno. Garantiva in questo modo un minimo di produzione per la sopravvivenza del contadino, anche in caso di ristagno d’acqua sulle testate dei campi. Prima dell’avvento delle idrovore, la sommersione dei terreni era piuttosto frequente e riduceva drasticamente la produzione soprattutto di grano. Da qui la locuzione popolare: “sotto l’acqua fame, sotto la neve pane”.
Di filari di vite “a festone” oggi ne sono rimasti ben pochi; se ne possono osservare più frequentemente altri “a cassone”, che a partire dal primo ‘900 hanno gradatamente sostituito le obsolete
tirèle. Il “cassone” consiste in coppie di viti piantate vicine tra loro, al centro della striscia di terreno alberata che si alterna al seminativo; le viti vengono fatte crescere dalla base, piegando lateralmente i due cordoni che così formano due filari paralleli (bine), sostenuti da pali secchi e qualche volta “maritati” a tutori vivi, come nelle forme precedenti.
Nell’ultimo dopoguerra la diffusione del vigneto specializzato, in luogo delle colture promiscue, ha imposto l’eliminazione di queste forme di allevamento della vite, sostituite da quelle francesi, come il Sylvoz in pianura e il Guyot in collina. Anche i vitigni subiscono dei mutamenti: Corbinella, Pattaresca, Corbina, Marzemina, Dolcetta, Gatta ed altre lasciano il posta alle varietà francesi, come il Merlot e il Cabernet. Nel seminativo, alla
spagna e al cànevo, subentrano il mais ibrido, la soia e anche la non coltivazione (riposo), un tempo chiamata “maggese” e ora sovvenzionata e ribattezzata set-aside!

5.13 Botte di Rivella
Della botte di Rivella si sa che è stata totalmente ricostruita subito dopo la costituzione del Retratto di Monselice, risalente al 1557. Per rastrellare i fondi necessari alla realizzazione, vengono istituiti appositi campatici (contributi) sul reddito dei terreni bonificati e un pedaggio (palada) da far pagare ai barcaioli in transito sul Naviglio Euganeo a Rivella. La gestione di quest’ultimo è affidata alla fraglia dei barcaioli di San Giovanni delle Navi di Padova. La botte, a quanto è dato di sapere, non è solo un manufatto che permette il sottopasso delle acque del Retràtto, ma comprende anche un viadotto che attraversa il naviglio per congiungere la strada proveniente da Arquà con la Monselesana, oggi statale Adriatica. In altri termini, l’opera è articolata su tre livelli: quello più basso dello scolo, Canale delle Pietre, che scorre sotto il naviglio; quello del naviglio, dove l’acqua si muove in direzione di Battaglia; quello del ponte stradale che è posta sopra il ponte-canale. Questa complessa costruzione è descritta a fatica da Michele de Montaigne nel diario steso durante il grand tour compiuto in Italia nel 1580 (v. scheda Il grand tour di Montaigne e La botte). Per la veemenza delle acque e forse anche per la fragilità dell’opera, nel 1633 il viadotto stradale crolla sulla botte interrompendo la circolazione stradale e la navigazione. I successivi interventi riparano il manufatto idraulico e, al posto del vecchio ponte stradale in muratura, ne viene costruito uno di legno più a sud, verso Monselice, dirimpetto al mulino di Rivella (v. 8. tav.13). La botte crolla una seconda volta a metà del XVIII secolo, come testimoniano le due lapidi, una situata sulla parete verso valle del ponte-canale e l’altra sul muraglione eretto tra la statale e il canale, a ricordo delle ricostruzioni del 1634 e del 1752.

Botte di Rivella, Monselice. La lapide riporta l'anno di costruzione (1557) e gli stemmi dei Savi alle Acque che ne disposero l'erezione.

Botte di Rivella, Monselice. La lapide riporta l’anno di costruzione (1557) e gli stemmi dei Savi alle Acque che ne disposero l’erezione.
(Foto dell’autore)
Il grand tour di Montagne e la botte
Dall’inizio del ‘500 in poi giovani rampolli dell’aristocrazia inglese, francese, tedesca, ed europea in genere, intraprendono lunghi viaggi in Italia, attratti dalla storia, dall’archeologia, dalla flora, dal paesaggio e anche dalla mondanità e dai costumi (l’Italia vanta, tra l’altro, il primato nell’uso della forchetta a tavola). Anche la diversità dei vari stati regionali, uniti da una stessa lingua, incuriosisce lo straniero. Uno dei più noti viaggiatori stranieri è il tedesco di Francoforte Goethe, seguito poi da molti altri. Si contano circa 10.000 inglesi che sono venuti in Italia sino a tutto l’800. Non avevano fretta come i turisti di oggi e, forse per questo, riuscivano ad entrare in sintonia con il nostro ambiente e a coglierne la vera essenza.
Michele de Montaigne, tra il 1580 e ’81, compie un lungo viaggio da Parigi a Bordeaux passando per Basilea, Monaco, Verona, Venezia, Padova, Bologna, Ancona, Roma, Lucca, Milano e Lione. Il 13 novembre del 1580 da Padova si dirige verso Abano e Battaglia; da qui, dopo essersi fermata alle sorgenti termali di villa Selvatico, va verso sud. Ecco come descrive questa tratto del suo viaggio e in particolare la
botte di Rivella.
“Partiti da Bataille [Battaglia] dopo la colazione, seguirono il canale che prende il nome di ‘canale delle due strade’, stendendosi lungo l’una e l’altra sponda. In questo punto all’altezza delle due strade suddette, si ergono dei terrapieni sopra cui transitano i viandanti, mentre esse strade – all’interno – si vanno abbassando sino al livello del fondo del canale; qui è sorto un ponte di pietra a congiungere le due strade, e su di esso scorre il canale medesimo. Sempre lungo quest’ultimo, s’incontra pure un ponte assai elevato sulle due strade; sotto passano i navigli che seguono il corso del canale, mentre sopra transita chi voglia attraversarlo. Sulla piana scorre un altro grosso torrente che scende dalle montagne e il cui letto si incrocia col canale; per lasciarlo fluire senza interrompere il corso di quest’ultimo, è stato costruito appunto quel ponte di pietra su cui scorre il canale stesso, mentre sotto scorre il torrente, intersecandolo in un letto rivestito di tavole sui fianchi, di modo che pure il torrente è in grado di trasportare imbarcazioni, essendovi abbastanza spazio in altezza e larghezza. Poiché sul canale passano di continuo altri navigli, mentre sulla sommità del ponte transitano veicoli, si hanno tre strade l’una sull’altra”.
Descrivendo il viaggio da Padova a Rovigo, a parte il particolare interesse per i fanghi e le acque termali, in quanto sofferente di dolori reumatici, Montaigne dedica, come riportato, molto spazio del suo minuzioso diario a questo manufatto di Rivella che deve aver attirato in maniera particolare la sua attenzione per la singolarità dell’aspetto e del funzionamento.

6.13 Monte Lispida
Poco prima di Rivella (v. 8. tav.13) si nota un corso d’acqua che sottopassa il naviglio Padova – Monselice attraverso la botte (v. 5. tav.13). Si tratta del canale delle Pietre o Scoladór, che ad est del naviglio assume il nome di Fossa Paltana e che raccoglie le acque a scorrimento superficiale del Retratto di Monselice (v. scheda Retratto di Monselice). Questa corso d’acqua è collegato anche al laghetto di Lispida, posto a sud-est dell’omonimo monte (94 m); sul versante ovest di quest’ultimo sorge la villa Italia (v. 7. tav.13). Il monte Lispida e le relative cave di séłesi e maségne trachitiche, ora inattive, sono a lungo di proprietà del monastero di Santa Maria. Nel 1150 si ha notizia, per la prima volta, di questo insediamento religioso che è retto da monaci agostiniani. Successivamente si susseguono vari ordini monastici e proprio il possesso della cava suscita forti appetiti per l’aggiudicazione del priorato. Infatti questo luogo di estrazione, sino a tutto il ‘700, è uno dei più importanti dei Colli e fornisce materiale lapideo per il rinforzo dei litorali marini e per varie altre costruzioni. Tra queste ultime, anche la basilica di Santa Giustina di Padova viene fabbricata nel ‘500 con il materiale proveniente dalla demolizione dello Zairo (teatro romano a Prato della Valle), come pure con le pietre di Lispida. Si suppone che il Naviglio Euganeo sia stato progettato non solo per collegare militarmente, con una sorta di super-idrovia, Monselice a Padova, ma anche per poter trasportare più facilmente e velocemente le pietre dei Colli con le quali si potevano erigere le mura difensive e costruire pavimentazioni.
La bonifica della zona e la collegata sistemazione delle affossature favoriscono, oltre allo scolo dell’acqua, anche il trasporto dei sassi di Lispida. Vicino all’ attuale laghetto, ai piedi del monte, viene caricata la pietra trachitica sulle burchielle che oltrepassano la botte a Rivella e, lungo l’attuale Fossa Paltana, giungono in prossimità del Vigenzone, in zona Palù, dove esiste il porto delle pietre. Qui, attraverso uno scivolo, il cargadór sull’arzere, avviene il trasbor­do su più grosse imbarcazioni, burci e padovàne, che scendono poi lungo il Vigenzone, verso Brondolo (Chioggia) e quindi la laguna o l’ Adige e il Po. Le pietre dirette a Padova, invece, giunte a Rivella vengono trasferite su barconi che poi viaggiano nel naviglio Battaglia. Quelle che provengono dalle altre cave e sono dirette a Brondolo vengono caricate su carri e ammassate a Battaglia, nel borgo del Pizzon, ora Ortazzo, per poi essere stivate su burci che navigano sul Vigenzone.
Nel 1564 viene scavato il nuovo Canale delle Pietre che congiunge la cava del monte Lispida alla botte di Rivella per agevolare la navigazione. Tale opera però non permette di evitare il trasbordo a Rivella e a Palù. La discontinuità tra il Naviglio Euganeo, che scorre alto rispetto alla campagna circostante, e i canali bassi verrà eliminata soltanto nel 1923 con l’edificazione della conca di Battaglia Terme che collegherà il canale Battaglia con il Vigenzone (v. 8. tav.12). All’indomani della soppressione del monastero di Santa Maria (avvenuta nel 1780), le cave vengono dapprima amministrate dal governo veneziano e poi, nel 1792, vendute all’asta, passando così in mani private.

7.13 Castello di Lispida (Villa Italia)
Il monte Lispida e l’omonimo laghetto nel 1880 sono acquistati dal conte Augusto Corinaldi che, poco dopo, edifica l’attuale villa a forma di castello sui resti del monastero di Santa Maria e ridisegna le antiche cantine scavando gallerie nella roccia del monte, sino a portarle a circa 2000 metri quadrati con una capacità potenziale di 30.000 ettolitri di vino (le più grandi cantine storiche del Veneto). I Corinaldi si dedicano appassionatamente a questa attività agricola tant’è vero che introducono nella zona euganea forme di allevamento della vite e tecniche enologiche d’avanguardia (v. scheda I primi vini ‘Doc’ dei Colli).
Per un anno e mezzo durante la prima guerra mondiale la villa è sede del quartiere generale del re Vittorio Emanuele III; vi si svolgono importanti convegni militari e politici e per questo viene chiamata “Villa Italia”. È proprio durante un soggiorno in questa località che il futuro re Umberto II, ancora giovanetto, conosce Maria Josè del Belgio nel corso di una festa organizzata nella villa Selvatico (v. 1. tav.13).
Nel 1926 la proprietà passa da Leopoldo Corinaldi a Vittorio Sgaravatti di Saonara che avvia un importante centro per la produzione e selezione di sementi. Successivamente il nuovo titolare sviluppa la coltivazione del pomodoro e della cicoria, prodotti che vengono trasformati: il primo in conserva, la seconda, mediante un forno rotatorio, in polvere per la produzione di surrogato di caffè. Tale indirizzo viene mantenuto sino alla fine degli anni ’50, quando con l’impianto di nuovi vigneti e con programmi di vinificazione tradizionali, l’azienda, che ora si estende per 90 ettari, riprende la sua vocazione vitivinicola. La villa, elegantemente restaurata, è anche sede di una particolare forma di agriturismo.

Castello di Lispida (Villa Italia) negli anni '20 del 1900.

Villa Italia negli anni ’20 del ‘900.
(Cartolina, racc. A. Zanellato)

Informazioni: Azienda Agricola Castello di Lispida, Via IV Novembre, 4 – Monselice; […] sito web: www.lispida.com

I primi vini ‘D.O.C.’ dei Colli
Monogramma delle cantine di Lispida.
Proprio a Lispida venne adottata, per la prima volta nei Colli Euganei, la forma di allevamento della vite del francese Guyot, oggi molto diffusa, caratterizzata da potatura lunga ma povera di gemme, per produrre poca ma pregiata uva. All’Esposizione Nazionale di Milano del 1881 i vini padovani furono rappresentati dalle produzioni delle aziende del mons. Andrea Maldura di Arquà Petrarca e del cav. Augusto Corinaldi di Lispida.
Ecco come in tale occasione vennero presentate le due aziende viti-vinicole ‘modello’.
“Il conte Corinaldi imprese a condurre, per economia e da non molto tempo, un proprio fondo in Lispida, … di ettari 174 per una buona terza parte in colle. Prefissosi principalmente l’attivazione dell’industria enologica diretta alla fabbricazione in grande di un solo tipo di vino rosso da pasto di buona qualità atto all’esportazione, si addiede ad una razionale riduzione di quel possesso prescegliendo le posizioni le più adatte per la coltivazione intensiva della vite, e abbandonando le altre alla produzione dei cereali, di erbe da foraggio, di frutta e della legna. I vigneti, compiuti i lavori, ascenderanno a circa 90 ettari. Per mezzo di opportuni esperimenti venne alla scelta dei viti­gni più confacenti, che sono il
refosco, il corbino, il pinot, il verdiso, poco di friularo o di raboso. Ridusse i fabbricati per modo da avere un vero stabilimento enologico, dotandoli di tutte le macchine, istrumenti ed arnesi che alla più perfetta confezione del vino occorrono; né trascurò di porre a capo dell’azienda un espertissimo enologo, il sig. Lehner Giuseppe.
… La produzione totale del possesso in discorso vuolsi farla ascendere ad ettolitri 5.000, dei quali, almeno ettolitri 2.000, di prima qualità. Il vino si fa generalmente con fermentazione moderatamente breve, con diraspamento parziale o totale, e con sommersione delle vinacce; si lascia fermentare in tino scemo e scoperto, oppure in tino coperto, ma non ermeticamente. Il primo travaso di imbottamento si eseguisce all’aria aperta, e per i successivi si fa in modo di togliere il contatto con l’aria, usando, massimamente nel processo d’invecchiamento del vino, le colmature. La pompa rotatoria venne esclusivamente adottata per il travaso come la più opportuna per ogni riguardo. Si ha la massima cura nel seguire i processi di una sana pratica nei tramutamenti, nelle zolforazioni, nella pulizia delle botti. Le cantine … saranno scavate nel monte, che trovasi immediato alla schiena del fabbricato principale. Oltre a quelle già esistenti, recentemente se ne costruì una della capacita di circa ettolitri 2.000 con tinaja a mezzodì, secondo le norme volute dall’arte e dalla pratica. Essa è a doppia fila di botti, con spaziosa corsia nel mezzo, pavimento in cemento con opportuni pozzetti. Sopra la cantina vi è un locale apposito per la separazione delle uve, con delle aperture nei muri che danno nella tinaja e servono a far passare nella stessa le uve scelte onde vengano pigiate ….
In Arquà .. ilsig. conte Maldura … , coadiuvato dal distinto suo agente ed enologo Silvio Tagliapietra, imprese sino dal 1875 la conduzione per economia di un proprio fondo esteso ettari 14,094, dei quali ettari 6,500 stanno riducendosi a vigneto; ettari 3,800 sono aratorio-vitati con frutti ed olivi; ettari 3,794 a bosco ceduo forte. …
I tipi di vini prodotti sono: Vino bianco dolce confezionato colle uve
Moscata bianca, Pinella e Schiavetta, previo moderato appassimento delle medesime e filtrazione del mosto. Vino bianco secco fino confezionato col Riesling italiano e col Pinot bianco, cogliendo l’uva a giusta maturanza, scegliendola scrupolosamente dalla guasta e immatura e facendo fermentare il mosto senza bucce. Detto comune, confezionato colle varie uve bianche, fra cui primeggia la Garganega, che si lascia moderatamente fermentare colle vinacce per ottenere un vino più aggradito ai consumatori del paese.
Vino rosso secco, in parte confezionato col solo
Pinot nero, in parte con una miscela delle rimanenti uve nere”.

8.13 Rivella
Oggi il nome della località Rivella, posta ai confini di ben tre comuni, Monselice, Battaglia e Pernumia, indica solo l’incrocio tra la strada statale Adriatica e quelle che da una parte portano ad Arquà Petrarca e dall’altra verso Pernumia. Testimonianze archivistiche e fotografiche invece attestano che un tempo il borgo era molto più consistente di quello attuale. Lungo la strada statale 16 c’erano: l’osteria Zodio (v. 9. tav.13*), la villa e l’oratorio Dottori, il mulino Pavanello, tutti edifici attualmente non più esistenti. Prima dell’attuale ponte sollevabile sul canale Monselice, sito all’inizio della diramazione della statale 16 per Arquà Petrarca e costruito nell’ultimo dopoguerra, ne funzionava uno girevole metallico, simile a quello situato a Monselice; esso a sua volta aveva sostituito quello di legno edificata chissà quando dagli stessi mugnai di Rivella. Il ponte metallico fu costruito nel 1874 dalla fonderia Rocchetti di Padova in occasione del V centenario della morte di Francesco Petrarca (1304-74). Alcune tracce del ponte girevole sono ancora visibili dalla parte della strada Adriatica. Se si osserva l’inizio della via per Pernumia, si nota uno slargo: qui sorgeva il mulino con tre ruote idrauliche, bombardato durante l’ultima guerra, che probabilmente aveva iniziato a funzionare poco dopo la costruzione del canale Padova-Monselice derivando acqua dallo stesso. In questo modo si era formato il canale Rivella, detto anche della Pria, che ancora oggi va a congiungersi al canale Bagnarolo, in località Campagna di Pernumia, sede un tempo di altri mulini ad acqua. Ancora una volta sono vari i monasteri che si contendono le quote di proprietà degli opifici di Rivella: S. Agata e S. Cecilia, S. Giacomo di Pontecorvo, S. Maria di Betlemme, le Maddalene, tutti monasteri di Padova, S. Maria di Lispida, S. Giacomo di Monselice, S. Giorgio in Alga di Venezia.
Al di là del naviglio, ha funzionato sino agli inizi degli anni ’50 del ‘900 la breve ferrovia Decauville, costruita dagli Sgaravatti (v. 5. tav.10), che partiva dal piazzale della cava del monte Lispida, lambiva il laghetto, sottopassava la linea ferroviaria Padova- Bologna e arrivava in prossimità dell’argine sinistro del canale Monselice, dove venivano ormeggiati i burci in attesa del carico di maségne.

Per il movimento del ponte sollevabile, telefonare all’Ente Nazionale per le Strade (ex ANAS), 049.610251.

Rivella negli anni '30: l'osteria Zodio e, più lontano, il palazzo e l'oratorio Dottori.

Rivella negli anni ’30: in primo piano l’osteria Zodio, più lontano il palazzo e l’oratorio Dottori.

(Cartolina, racc. A. Zanellato)

I porti dei Colli e il Petrarca ad Arquà
Nelle Valli di Galzignano esiste tuttora la località “porto”: questo toponimo e il nome del corso d’acqua cui è legato (canale Scajaro, da scaglia, materiale trasportato su barche), testimoniano che questo canale era anch’esso navigabile. Anche prima della bonifica cinquecentesca, in questa zona ci si poteva spostare con natanti di modeste dimensioni. La cartografia d’archivio riporta per esempio il toponimo “Porto” anche nelle vicinanze di Arquà. Francesco Petrarca (1304-1374) quando voleva arrivare alla sua casa in barca, una volta approdato a Rivella lungo il naviglio Battaglia, doveva cambiare imbarcazione e, lungo vari canali di scolo, raggiungeva il lago di Lispida, aggirava, o da una parte o dall’altra, l’omonimo colle, portandosi oltre il lago di Costa sino alla località Porto, non lontana dal paese. In occasione della bonifica di metà ‘500 (v. scheda Retrato de Monsełese) venne realizzato un nuovo scolo, denominato anche Canaletto, lungo l’attuale diramazione della statale Adriatica in direzione di Arquà; questo scolo, che passa ancora sotto il vecchio “Ponte delle Vacche” (in prossimità del passaggio a livello), servì ad accorciare le distanze via acqua tra Rivella e il lago di Arquà.
In barca si poteva giungere anche a Valsanzibio attraverso canali minori, nella zona vicina agli attuali campi da golf (inizio di via Valli) dove pure si riscontra il toponimo “porti”, forse riferito all’antico approdo alla base del promontorio del Priorato di Sant’Eusebio. Probabilmente esisteva un collegamento anche con la famosa villa Barbarigo. Anche i Bagni di San Bartolomeo, posti sotto il monte Castellone (207 m) e da tempo dismessi ed abbandonati, potevano essere raggiunti via acqua prima della bonifica dell’area. Tutta la zona ai piedi dei colli era da secoli regno di valli, paludi e acque stagnanti, tanto che già il Petrarca invitava il Signore da Carrara ad intraprendere un’opera di bonifica, in quanto “soltanto in tal mezzo ti verrà fatto di crescere il pregio di questo bellissimo paese e raddoppiare la fertilità dei Colli ricchi del frutto di Minerva e di Bacco, ma dalle acque soverchie che vi ristagnano, negati a quelli di Cerere”.
Francesco Petrarca, a partire dal 1369, fissa la sua dimora in quel di Arquà, sistemando per sè e per la sua famiglia una casa con giardino, forse donatagli da Francesco da Carrara, signore di Padova. In questo luogo felice, immerso nel verde anfiteatro dei Colli Euganei, il poeta trascorre gli ultimi cinque anni della sua esistenza, tutto dedito allo studio delle umane lettere. Persegue l’ideale della ‘vita solitaria’ che privilegia gli ozi e il raccoglimento intellettuale in una natura bella, rispetto agli affari mondani e agli affannosi impegni politici e mercantili della città. Egli è il primo tra i moderni a dimostrare interesse per la natura in quanto paesaggio. Si dedica alle cure del proprio giardino che considera luogo ideale per uno studioso e che arricchisce di sempre nuove piante, soprattutto di allori, la sua specie preferita. Si racconta che per trasportare esemplari di questi arbusti da Padova ad Arquà, abbia impiegato tre giorni per compiere in barca il tragitto, a causa del maltempo.
L’abitazione di Arquà, come la vediamo oggi, è il risultato di vari rifacimenti a partire dalla morte di Petrarca. La vista dal poggiolo dello studio è invece rimasta più o meno la stessa: si apre ancora infatti su una verde vallata e inquadra i perfetti volumi conici dei monti Cero e Calaone, offrendo allo sguardo il paesaggio euganeo così come si presentava al poeta. Ecco un suo verso che testimonia la sua predilezione per i paesaggi collinari:
“Sento l’aura mia antica / e i dolci colli / veggo apparir” (Canzoniere, sonetto CCCXX).

Rivella, il Naviglio Euganeo negli anni '50 del 1900.

Il Naviglio Euganeo a Rivella negli anni ’50 del ‘900.

(Cartolina, racc. A. Zanellato)

Pier Giovanni Zanetti

Andar per acque, copertina.

Pier Giovanni Zanetti, Andar per acque, Padova, Il Prato, 2002 – pagine 172-181, 183-201, 203, 205 (foto), 206-208, 209 (foto),.217-219, 252, 234-238, 255-257, 287-289.